La Disforia di Genere
“Genere e psichiatria. Il caso della Disforia di Genere” è il titolo dell’ incontro tenutosi in Bicocca il 12 Marzo. Per iniziare la discussione abbiamo deciso di proiettare il documentario Crisalidi: filmato del 2005 di creazione dell’associazione Crisalide-AZIONE TRANS e prodotto in collaborazione con Bemoviement. Attraversa i percorsi di vita di cinque persone trans: Antonia, Giorgio, Nicole, Monica e Lorena che raccontano in 25 minuti di filmato cosa vuol dire per loro vivere la propria dimensione, le difficoltà che hanno incontrato durante tutta la vita e la forza che hanno raggiunto nel combattere la loro lotta, che portano avanti a testa alta ancora oggi, per la rivendicazione del diritto di riconoscimento delle proprie identità di genere.
“Chi è trans deve dimostrare ogni giorno quanto vale!”, “Quando ero donna dovevo eliminare ciò che di maschile avevo, ora che sono uomo devo eliminare ciò che di femminile mi rimane”, “E’ da più di vent’anni che lotto per il riconoscimento della mia identità, e ho paura, non lo nego”. Queste e altre le frasi esplicative di che cosa vuol dire vivere da trans nella nostra società. Infatti anche se viviamo nel 21° secolo e in un paese occidentale che si dice per il progresso e la tolleranza, la diversità viene vista ancora con una prospettiva maschilista, patriarcale, da eteronormale; dal lavoro alla famiglia tutto diventa complicato se decidi di vivere ogni giorno allo scoperto.
Sono due le opzioni se sei un/una trans: o decidi di vivere nascosta/o fin quando non avrai raggiunto il corpo prefetto e inconfondibilmente maschile o femminile (modalità stealth); oppure decidi di vivere la vita di tutti i giorni allo scoperto mostrando la tua trasformazione, accettando in tutte le fasi il corpo che ti appartiene. Chi sceglie la prima via solitamente sarà una persona infelice perché da un lato non raggiungerà mai la perfezione tanto voluta perché idealizzata e troppo distante dal reale; nessun* è perfetto né potrà mai esserlo sotto tutti i punti di vista. Dall’altro lato tenderà quasi sempre a rinnegare il proprio passato in quanto ripudia il suo “corpo vecchio” e non ha mai accettato la sua natura. Chi decide invece di intraprendere la seconda via, avrà sicuramente una quotidianità difficile e tortuosa, ma allo stesso tempo dimostrerà con l’ accettazione di sé di non vergognarsi per ciò che è, che ha voglia di vivere allo scoperto anche il proprio percorso di transizione.
Dopo la proiezione Antonia ha raccontato il suo percorso fino ad Ala Trans Milano, dove oggi è direttrice e attivista. Vissuta in Puglia decise di venire al Nord per trovare un ambiente più aperto dove potersi sentire accettata e anche amata; non fu facile lo scontro con la Milano di destra, che voleva strade pulite e pochi disordini, ma riuscì a resistere e trovare la forza per lottare alzando la voce e si unì all’associazione Crisalide-AZIONE TRANS. Oggi può dirsi una donna che ha realizzato la maggior parte delle sue ambizioni, si occupa di informazione, accoglienza, assistenza, autofinanziamento e quant’altro nello Sportello Ala Trans Milano, fa parte di un collettivo teatrale ed è ancora una militante attiva e sempre presente.
Poi è stato il momento di Stefania Voli, dottoranda in sociologia in Bicocca, la quale, sollecitata da una nostra curiosità, ci ha parlato del riconoscimento dell’identità di genere a livello legale. Ancora oggi infatti in Italia un uomo o una donna non può vedere riconosciuta legalmente la propria identità se non dopo la serie di dolorose e rischiose operazioni chirurgiche (ben27!) per il cambiamento di sesso. Come se tutto dipendesse dal corpo…
E’ una distorsione della legge 164 dell’ ’82, per la quale tanti e tante donne e uomini trans hanno combattuto in prima persona. Era una legge anche all’avanguardia per i tempi e prevede norme in materia di rettificazione di attribuzioni di sesso; un testo legislativo composto da soli sette articoli, che ha necessitato costanti integrazioni. È un provvedimento legislativo fondamentale per le persone trans. Un testo nel quale si accoglie un concetto di identità di genere innovativo secondo cui ai fini dell’ identificazione viene conferito rilievo non più esclusivamente agli organi sessuali esterni, ovvero biologicamente dati, ma anche ad elementi di carattere psicologico-sociale. Presupposto della normativa è dunque la concezione del sesso come dato complesso della personalità determinato da un insieme di fattori , dei quali deve essere agevolato o ricercato l’equilibrio, privilegiando il o i fattori dominanti.
Sono tanti i casi in cui ancora oggi non è stato possibile un riconoscimento dell’identità di genere non su basi fisiche come è avvenuto a Bologna o a Vercelli, ma ci sono casi dove invece è stato possibile l’ottenimento dell’identità richiesta anche senza interventi chirurgici attuati sulle proprie persone, come è successo a Roma, Rovereto e di recente a Messina.
Rimane il fatto che l’Italia è dopo la Turchia il secondo Paese nella zona europea con la maggior percentuale di violenza sui/sulle trans e questo sta ad indicare un livello di omotransfobia ancora molto presente nella nostra società.
Il sistema welfare viene visto come un mezzo delle detenzione delle responsabilità individuali e in questa cornice i saperi medici svolgono una funzione imperante.
Dopo qualche minuto, abbiamo ripreso il discorso passando dalla prospettiva più esperienziale della prima parte dell’incontro ad una dimensione teorica. Chiara Caravà psicologa dello Sportello Ala Tans Milano, è partita dalla propria esperienza per raccontarci come lei pensasse che una persona transessuale potesse vivere la propria dimensione; ci ha spiegato come la realtà della transizione faccia parte delle nostre identità, in quanto la stessa identità è dinamica e mutevole nel tempo. La difficoltà maggiore che possa incontrare la persona trans è la negazione del proprio passato e la pretesa di una nuova identità statica e immutevole; questa difficoltà, che parte dal disagio del vivere in un corpo diverso da quello che senti di essere, provoca un frantumazione delle proprie vite dovute alla eliminazione della propria cronologia. Noi siamo ciò che siamo oggi, grazie a ciò che siamo stati ieri. L’universalità della dimensione transazionale ha messo in crisi l’ utilizzo della stessa categorizzazione della persona sotto l’ etichetta trans: che senso ha chiamare una persona trans se la transizione è una dimensione comune?
La definizione di transessualità che troviamo nella psichiatria la classifica come disforia di genere, ovvero un disturbo della personalità da curare. Non esiste una vera e propria cura o meglio non nel senso tradizionale del termine; l’ unica soluzione proposta infatti prevede la somministrazione di ormoni e una percorso di psicoterapia che dura ben 4 anni e infine la chirurgia.
Paradosso della diagnosi psichiatrica sta nel definire questa dimensione come patologia da curare; esplorando i percorsi di vita infatti, ci si rende conto che non solo non è da considerarsi come malattia ma che i canoni utilizzati per classificarla come tale sono basati su costruzioni sociali impermeabili e statiche: fin dalla tenera età la persona trans è in contatto con la propria dimensione interna ma non la vive come diversità, in quanto vive ancora in una fase nella quale la propria realtà non è vista come stranezza dai propri coetanei; il disagio inizia ad emergere con l’avvicinarsi dell’adolescenza, in cui le costruzioni dei modelli sociali di maschile e femminile iniziano a pesare sull’individuo, costringendolo ad adeguarsi alla polarizzazione.
La paura del diverso è prima di tutto la paura del diverso che è dentro di noi.
Infine è stato il momento della professoressa Ruspini, la quale è partita da una riflessione sociale col quesito: “La transessualità è un problema, ma di chi?”
Il rapporto fra sesso-genere-orientamento sessuale può essere visto anche sotto la prospettiva della Transpositività, ovvero l’esperienza di vita che permette maggiore conoscenza e consapevolezza di sé e degli altri/altre.
In quest’ ottica emerge un’ incongruenza tra struttura e sovrastruttura nella nostra società: se da un lato la società è mobile e magmatica , dall’altro la sovrastruttura – in questo caso con particolare riferimento al sistema normativo e giuridico – è statica e vecchia. Questa incongruenza tra società e norme regolatrici della stessa, deriva senza dubbio da un problema generazionale; in Italia infatti abbiamo leggi ed emendamenti emanati e decisi da generazioni troppo vecchie e tradizionaliste, ancora ancorate a precetti e luoghi comuni distanti dalla vita quotidiana di ognuno di noi. Gli ormoni proposti come cura alla patologia della transessualità, sono quindi da intendersi come veri e propri pattugliamenti dei confini di genere della società dicotomica odierna, dai confini (che devono essere) chiari e dai ruoli sociali chiari; micro poteri fluidi che disciplinano i corpi. Un corpo medicalizzato è visto come corpo normalizzato, eteronormato, accettato e accettabile socialmente.
Nasce quindi un gap tra i diritti e le leggi che ci regolamentano: in una società che ci obbliga a schierarci e a rientrare il caselle classificatorie prestabilite, non c’è spazio per l’incertezza e l’intermediatezza. O sei bianco o sei nero; o sei uomo o sei donna….capito?!
La transessualità è un’incongruenza tra identità di genere e il proprio sesso biologico; per dirlo in altre parole è come se si avesse la propria mente intrappolata in un corpo biologicamente opposto.
Vivere questa dimensione di disagio è una condizione costante per la persona trans; tuttavia il contesto sociale e la transfobia diffusa obbligano le persone trans a vivere la propria realtà con un peso aggiunto, costringendole a barcamenarsi nella quotidianità per ottenere ciò che per noi è scontato e implicito.
Noi siamo per l’euforia di genere, ovvero per una riappropriazione delle proprie identità di genere; ci discostiamo da categorie, etichette e classificazioni per abbracciare una mentalità inclusiva e di libera autodeterminazione dei propri corpi e delle proprie persone.
Collettivo Bicocca
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