La Sardegna dopo Teulada
di Barravento76
milanese di origini sarde, ha dato negli anni il suo modesto contributo di attivismo, prima al movimento altermondialista, poi all’indipendentismo sardo aderendo ad una delle tante sigle. Quanto scrive è frutto di una riflessione del tutto personale.
I Numeri
Un po’ di numeri, forse noti, ma che vale la pena ribadire.
Oggi il demanio militare in Sardegna ammonta a 24.000 ettari, a fronte dei 16.000 ettari occupati nella penisola italiana. Il 60% di tutte le installazioni militari sul territorio italiano sono dislocate in Sardegna. A questa cifra si devono sommare 12.000 ettari di terra gravati da servitù militare. In mare le “Zone Interdette o Dichiarate Pericolose per la Navigazione” si estendono per 2.840.000 ettari superando per estensione la superficie dell’intera isola. Resta incalcolabile l’ammontare delle servitù aeree.
L’isola, a ragione, è spesso dipinta come una gigantesca portaerei al centro del Mediterraneo.
Come si è arrivati a questo punto non è qui il caso di raccontare, basti sapere che gli USA nel dopoguerra vi individuarono «a pivotal geographic location» e la misero al centro delle loro strategie militari.
La compiacenza dei governi italiani e delle classe dirigenti sarde dell’epoca rese possibile l’inesorabile espansione che spiega il presente.
La giornata
Una vittoria, una bella, rincuorante vittoria, quella ottenuta il 3 novembre a Teulada da collettivi antagonisti, associazioni antimilitariste e sigle indipendentiste che, determinati, sono riusciti in oltre una dozzina a irrompere all’interno delle recinzioni della base, provocando intorno alle 15,30 l’interruzione della stombazzatissima “più grande esercitazione NATO dai tempi della guerra fredda” conosciuta come Trident Juncture, che oltre alla Sardegna coinvolge anche Spagna e Portogallo.
Una vittoria resa più dolce dall’imbarazzo in cui si trova oggi il questore Gagliardi, zelante nel voler impedire l’esercizio dei diritti dei manifestanti con fogli di via, minacce, blocchi, perquisizioni e, ormai immancabili quanto gratuite, cariche. Sulla graticola per la gestione repressiva deve ora fronteggiare numerose richieste di dimissioni da tutte le componenti della mobilitazione, e le critiche di alcuni esponenti della politica sarda.
La manifestazione, cui hanno partecipato circa 700 persone, non era un evento isolato ma il culmine di una mobilitazione che ha visto la società sarda attiva da mesi e che ha prodotto più di un momento significativo: la manifestazione conclusiva del campo antimilitarista del 12 ottobre a Cagliari, le proteste per il trasporto di ordigni in mezzo ai viaggiatori all’aeroporto civile di Elmas, la manifestazione dei 5000 di Cagliari del 31 Ottobre.
I soggetti
La mobilitazione rappresenta la confluenza di diverse tradizioni: quella storica antimperialista dei movimenti, quella pacifista delle associazioni e quella indipendentista. La capacità di convergere in questa battaglia – battaglia che, in virtù del gran numero di stati e territori coinvolti presenta un deciso respiro europeo, dato importante per rompere quella narrazione di isolamento e perifericità con cui in continente si guarda spesso alle vicende isolane – è certo rimarchevole e va sottolineata. Così come va sottolineata la vivacità di parte della società sarda capace ultimamente di numerose mobilitazioni, anche coronate da successo, in difesa dei diritti alla casa e allo studio, e del territorio da ogni genere di speculazioni energetiche, cementizie, industriali; pienamente al passo quindi con i tanti movimenti analoghi in Europa e non solo.
Celebrare questa convergenza dalle potenzialità certamente interessanti, e forse necessaria, non deve però far dimenticare le numerose contraddizioni e i limiti delle diverse componenti che emergono a un’analisi più profonda e storicamente contestualizzata, e che vanno esplicitate nell’ottica, positiva, della costruzione dal basso di una forza di conflitto più unita ed efficace, non certo per sancirne l’impossibilità, capace di affrontare le numerose altre servitù legate al vecchio modello di sviluppo in crisi, ai trasporti, al modello turistico ecc, che costituiscono un nodo soffocante che tiene in ostaggio il futuro della società sarda.
Vediamo dunque questi limiti con l’avvertenza che quanto si va a dire in questa sede non può che contenere inevitabilmente elementi generalizzanti e di estrema sintesi.
Movimenti
Un certo ottimismo può essere espresso riguardo alla strada intrapresa dai movimenti. Non si poteva dire lo stesso solo una anno e mezzo fa. Ultimamente si registra una crescita non solo quantitativa ma anche di protagonismo e di capacità organizzativa dell’antifascismo, dei collettivi universitari, delle occupazioni, delle iniziative no-border e, ovviamente, della rete no-basi. Per quanto ignorati dal mainstream sono molto attivi e contano una buona presenza social. In una terra in cui il monopolio della rappresentazione del conflitto è ancora in mano, seppur sempre meno saldamente, ai sindacati con la difesa dei posti di lavoro legati all’industria pesante ed estrattiva e di un welfare patriarcale (legato al lavoro del capofamiglia), rappresentano come altrove la speranza di scalfire questo status quo. Resta da capire, nell’ottica che ci interessa (ma questa può essere ignoranza di chi scrive), quanta consapevolezza della peculiarità sarda abbiano, ovvero quanti strumenti di emancipazione culturale siano riusciti a sviluppare in una condizione oggettiva di presidio italo-centrico delle narrazioni e degli insegnamenti che fanno fatica a contenere nelle categorie di volta in volta economiche, storiche, sociologiche e quindi politiche la Sardegna e i sardi per di più rappresentati in termini svalutativi. E quanto siano aperti a prospettive di autodeterminazione anche nazionale poiché il sospetto è che a sinistra non sempre vi sia chiarezza sulla varietà di rivendicazioni nazionali e di sostanziali differenze qualitative che differenziano quella sarda da ad esempio quella leghista. In passato è stato un problema e da qui è nata forse l’esigenza di un movimentismo separato e indipendentista.
Indipendentismi
Negli ultimi vent’anni è stato da quest’area che si sono sviluppate le elaborazioni più interessanti e culturalmente emancipatorie. Esse sono state in grado di far fare il salto di qualità teorico a quel sentimento diffuso nel privato ma tabù in pubblico, e spesso relegate a manifestazioni di folklore naif o oggetto di scherno. Con buoni risultati: rottura con le ipocrisie della pseudo-autonomia che in Sardegna è sinonimo di subalternità, incompatibilità con i partiti italiani, affinamento dei concetti fondanti l’indipendentismo sardo con una chiara scelta non-nazionalista e non-etnicista – fondata su unità di sangue, lingua e cultura – ovvero ancorata a quello che nella ricerca è definito civic-nationalism (come quello scozzese o catalunyo, in inglese il termine è neutro), e quindi inclusivo aperto e segnato da un’aspirazione a una sovranità non più assoluta (westfaliana), ma intesa come conseguimento del necessario potere di negoziazione con cui relazionarsi ai centri di potere sovranazionali e ai flussi della globalizzazione che attraversano il territorio, nella piena consapevolezza della dimensione di interdipendenza. In altre parole dotarsi degli strumenti necessari per autodeterminarsi il futuro.
Il discorso indipendentista è stato in grado di incrinare l’egemonia culturale della classe dirigente autonomista costringendola a prendere posizione rispetto a molti dei temi della sua agenda: servitù energetiche, industriali, militari, rivalutazione di storia e cultura sarda ecc.
Ora questa spinta appare esaurita e affiorano molti problemi: l’elaborazione teorica descritta non è diventata patrimonio comune di tutti i militanti, o almeno non in forme non confusionarie e prive di ambiguità, autoreferenzialità, leaderismo, la sopravvivenza sulla scena di leader ancora risalenti alla fase folkloristica, l’opportunismo di molti leader “nuovi” passati presto all’incasso di posizioni privilegiate nelle istituzioni, cooptati dal sistema di potere attraverso partitini identitari con ruolo ancillare dei partiti tradizionali (molti presenti tra i 5mila di Cagliari), l’appropriazione da parte di questi ultimi dei linguaggi e delle retoriche con conseguente svuotamento del loro significato.
E poi la più grave o forse l’origine delle altre: aver confuso l’indipendentismo con un’ideologia e non aver quindi scelto la parte sociale con cui stare e con cui contaminarsi. In altre parole la scarsa credibilità dell’indipendentismo nel conflitto di classe.
Per fare un esempio tra le sigle presenti a Teulada ve ne erano alcune che nei mesi scorsi, quando un certo numero di migranti furono dislocati nei centri di accoglienza regionali, erano più interessati a stigmatizzare vittimisticamente lo stato italiano per una distribuzione non paritaria (maggiore) rispetto ad altre regioni anziché sentire l’urgenza di manifestare solidarietà. E le parole d’ordine alla manifestazione esprimevano più il problema dei sardi bombardati con scarsa empatia magari per i popoli vittime delle armi testate in Sardegna.
Il vittimismo retorico contro il mal governo italiano (oggettivo) sembra spesso interessare di più del confronto con la società sarda e dello scontro necessario con la classe politica sardissima che fa le sue fortune col costante tradimento dei bisogni dei cittadini e alla quale basta toccare il tasto identitario per riguadagnare credibilità in questo campo.
Associazionismo
I molti soggetti in cui si esprime l’impegno della società civile rappresentano un tessuto diffuso e prezioso. Spesso i primi ad attivarsi nell’emergenza a livello locale, essi però presentano le debolezze tipiche anche altrove: eccessiva riduzione della politica ai suoi aspetti istituzionali e negazione delle necessità conflittuali del presente; diffusa apolicità in alcuni casi, o mancata emancipazione rispetto alle formazioni politiche di sinistra, SEL o fantomatici nuovi soggetti a sinistra del PD con le loro ambiguità note e la loro replica locale delle dinamiche politiche italiane, in altri. Non è un caso che la manifestazione dei 5mila di Cagliari abbia offerto occasione di passerella a numerosi opportunisti della politica regionale, in cerca di rivitalizzare i loro bacino di consenso ma sempre pronti a non tradurre nelle istituzioni il loro presunto impegno.
Il dopo Teulada
Perché il successo di Teulada non sia effimero ma “esportabile” in altri campi della politica sarda e aumenti la sua capacità di coinvolgimento e di opposizione serve quindi una capacità di messa in discussione dei soggetti e una crescita di consapevolezza diffusa. Nella profonda crisi della politica sarda, e nel generale scadimento delle strutture democratiche, c’è bisogno più che mai di una piattaforma dal basso che esprima l’irrinunciabilità dei diritti sociali di tutti i soggetti e in particolare dei soggetti più deboli, dei territori più colpiti, il bisogno di autonomia. Se il debunking dei miti tossici identitari resta una necessità, i movimenti dovrebbero pure comprendere tra questi miti quelli autosvalutativi che fondano la condizione di dipendenza, e aumentare la capacità di discernimento della complessità del fenomeno della rivendicazione territoriale. La Bretagna non è il Veneto e la Baviera non è la Scozia, ad esempio. Inoltre i peggiori nazionalismi oggi sembrano quelli che vogliono ricompattare le identità nazionali degli stati esistenti, nati proprio nella peggior temperie nazionalista esclusivista ottocentesca. Dal canto suo l’indipendentismo più che esercitarsi nell’immaginare gli assetti istituzionali di un eventuale soggetto statuale sardo, dovrebbero uscire dal recinto, e individuare i soggetti con cui costruire percorsi comuni. Inoltre andrebbe superata quella retorica anti-colonialista che sembra dimenticare che di fronte al neoliberismo dilagante ogni territorio è di fatto colonia. Superare l’autoreferenzialità e trovare connessioni con altri soggetti può solo rafforzare le lotte, non significa tradire l’aspirazione all’indipendenza.
È auspicabile quindi uno sforzo di comprensione comune, un incontro di culture e di persone più che di sigle, per un’autodeterminazione agita, nelle lotte di ogni giorno, contro la subalternità pervasiva che segna il presente.
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