Perchè essere contro la “Buona Scuola”? dal Collettivo Politico Manzoni

cpmIl seguente testo è stato prodotto da tutti gli studenti del Manzoni, una documentazione organica, strutturata e propositiva rispetto ai punti più critici e ambigui della “Buona Scuola” –quali ad esempio l’alternanza scuola-lavoro, l’ ingresso dei privati nella scuola pubblica e la nuova funzione manageriale del dirigente scolastico-.
E’ il frutto delle discussioni collettive che si sono tenute durante l’Autogestione del Liceo Classico Manzoni, durante la quale abbiamo già intervistato uno dei ragazzi del Collettivo che è anche Rappresentate d’Istituto.

 

La Riforma della scuola, approvata lo scorso anno in data 13 Luglio, è stata presentata come un qualcosa del tutto innovativo, brillante, un’aria di novità all’interno dell’istruzione scolastica pubblica italiana. A dire il vero, il nucleo di questa riforma non è nulla di nuovo: nel 2012 infatti, con il Disegno di Legge Aprea, si volevano già introdurre alcuni dei nuclei fondamentali dell’attuale legge 107; citiamo ad esempio il potenziamento della figura del preside, i finanziamenti da parte di enti privati e l’autonomia di ogni singola scuola. E’ interessante notare come il DdL fosse stato bloccato proprio dalle manifestazione studentesche. La Buona Scuola invece è passata, in Luglio, quando gli studenti non c’erano. C’è chi direbbe che aver aspettato le vacanze per mettere fuori gioco i diretti interessati del decreto non sia stato un grande esempio di democrazia; ma c’è anche chi direbbe che il governo Renzi con la democrazia non c’entra proprio nulla.
E’ incredibile che sia stato un governo, così detto “di sinistra”, ad aver fatto passare una legge che promuove la divisione tra scuole di serie A e serie B, la svalutazione della figura degli insegnanti, l’ingresso dei privati e l’asservimento del mondo dell’istruzione al mondo del lavoro, che nega alla scuola il suo valore intrinseco fondamentale.
D’altronde l’ideale neoliberista è ormai proprio di ogni settore del mondo Occidentale e la legge 107 è un’ulteriore prova della volontà italiana di uniformarvisi, ponendo le basi per peggiori sviluppi futuri. Pertanto non dobbiamo fermarci ai pro e contro immediati, ma, comprendendo l’ideologia che ci sta dietro, essere lungimiranti nell’approccio alla Riforma.
Se tali considerazioni sembrassero troppo astratte e ideologiche al lettore, queste saranno dimostrate entrando nel merito dei punti per noi più critici. Ma prima è doveroso osservare come la necessità, più spesso ribadita, di dover sopperire a mancanza di fondi pubblici con finanziamenti privati non sia tale; ci viene ripetuto che i soldi dei privati sono l’unico modo per salvare la nostra scuola. Forse prima si dovrebbe procedere ad una reale lotta alla mafia, all’evasione; nonché a tagli alle spese politiche e burocratiche, oltre che a quelle militari (per queste ultime vengono stanziati 19.000.000.000 con la legge di stabilità 2016) e magari anche alla scuola privata (472.000.000. dal 2015).
Inoltre, anche mancassero effettivamente soldi pubblici o possibilità di ricavarne, la natura pubblica e solidale della scuola non dovrebbe mai venir meno ed essere anzi l’ultimo baluardo di una società che vuole definirsi sana.

Con la legge 107, si istituisce invece la tanto discussa possibilità per i privati di finanziare i singoli istituti; con un 90% alla scuola prescelta, e il restante 10% al fondo comune per le scuole che non hanno ottenuto l’interesse degli investitori. (comma 148)
In particolare i privati possono intervenire per il finanziamento di:

  • Edilizia (co. 67)
  • Digitalizzazione (co. 58a)
  • Laboratori (c60) e attività extra-scolastiche (co. 22)
  • Il campo dell’offerta formativa (co. 7c e 29)

Le conseguenze negative che tutto ciò potrebbe avere, riguardano specialmente gli ultimi 3 punti, e come detto vanno analizzate in un’ ottica lungimirante, e non limitata al 2016: in primo luogo temiamo un incremento del divario tra scuole, in base all’appetibilità di esse per i privati, con istituti ben equipaggiati grazie ai nuovi investimenti e altri lasciati ai margini di uno sviluppo, che sarà quindi ancora una volta concesso solo a chi già partiva da buone condizioni.
A dire il vero, svolgendo delle ricerche sul sistema scolastico anglosassone, si vede come siano proprio le scuole ad essere state definite “fallimentari” dall’OFSTED (Office for Standards in Education, Children’s Services and Skills) a risentire di più dell’influenza dei privati. Queste, dunque, assumono il nuovo nome di “academies”, ovvero istituti nei quali l’ente privato copre il 20% degli investimenti della scuola, e in cambio può nominare la maggioranza del personale gestionale, nonché rilevare la proprietà della terreno e del fabbricato, diventando a tutti gli effetti gestore e proprietario della scuola.
Non è un caso se per meglio comprendere il ruolo di questi finanziamenti privati,  guardiamo al sistema inglese. Risulta essere questo il modello adottato dall’Unione  Europea, vera mandante della riforma 107. E al sistema scolastico anglosassone guarda con ammirazione anche il nostro governo, come ha più volte ricordato lo stesso Renzi, preoccupandoci non poco, soprattutto se in Inghilterra è stato possibile che il Community College di Thameshead abbia riaperto come Bexley Business Academy, grazie all’investimento di David Gerard, proprietario di una società immobiliare, che ha rivoluzionato la didattica dell’istituto tramite l’uso di programmi TV, prodotti CNN, e l’inserimento di importanti uomini d’affari nelle vesti di docenti.
E’ solo un esempio, ma ci porta al punto per noi più critico: è possibile un’ influenza di soggetti esterni e privati sulla didattica? In questa legge non è scritto che ciò avverrà, ma nemmeno viene garantito il contrario e così, se guardiamo agli esempi seguiti da chi questa legge l’ha scritta, il risultato potrebbe essere tutt’altro che rassicurante.
Posto il fatto che come studenti ci poniamo in netto e deciso contrasto ad ogni finanziamento privato; non essendo stato posto alla scuola l’aggettivo “Pubblico” per caso: pretendiamo l’indipendenza degli istituti dai voleri o dagli interessi di soggetti esterni, e quanto meno degli organi a tutela della libertà educativa e ideologica degli studenti e dei professori, che deve essere totalmente distaccata da vincoli economici, troppo facilmente convertibili in altri ben più dannosi.
Riteniamo quindi semplicemente scandaloso che nei rapporti tra privati e scuole siano i soli presidi, nelle nuovi vesti di presidi-manager, a rappresentare le seconde: infatti, in virtù dell’autonomia scolastica introdotta al comma 3 su base del regolamento di cui al decreto 275 del 1999, il preside si pone al vertice della comunità scolastica (co. 78), in particolare per quanto riguarda la gestione delle finanze e, di conseguenza, il rapporto con gli enti privati.
Ci chiediamo se un preside, dopo aver seguito il normale corso di formazione, abbia o  meno le competenze per assumersi l’importante e difficile gestione economica di un istituto. Ma a parte questo, che non è che un difetto tecnico della legge, come tanti (troppi?) altri, vorremo concentrarci sull’aspetto ideologico: si istituisce un sistema verticale e gerarchico, agli antipodi con la nostra concezione di scuola, che vorremmo partecipata da tutte le sue componenti. Crediamo in un coinvolgimento totale degli studenti e dei docenti, in quanto ogni sistema deve partire ed essere gestito dal basso.

Rifiutiamo quindi la piramide proposta dalla legge 107, con un preside al vertice seguito da un ristretto gruppo di fidati, come sancisce il comma 83, che istituisce la possibilità al direttorio di circondarsi di un numero di professori pari al 10%, che lo “coadiuverà nelle attività di supporto organizzativo e didattico dell’istituzione scolastica.”
Un altro mezzo per assoggettare ancor di più docenti al preside e instaurare tra loro dinamiche sempre più aziendali, viene introdotto al comma 126 con il bonus “per la valorizzazione del merito del personale docente” da assegnare “sulla base dei criteri individuati dal comitato per la valutazione dei docenti” (co. 129) formato da 6 componenti tra preside (che lo presiede), professori (in competizione col giudicato), studenti (uno solo), genitori e un componente esterno. I criteri per l’assegnazione del bonus sono quanto mai vaghi; difficile infatti giudicare “la qualità dell’insegnamento e del contributo al miglioramento dell’istituzione scolastica” (co. 129.3c). Ma di nuovo, non vogliamo concentrarci sugli aspetti tecnici, anche se moltissimi sarebbero gli errori e le vacuità da rilevare, quanto piuttosto schierarci contro l’impronta ideologica, del tutto neoliberista che la legge vuole dare alla scuola italiana. Questi commi introducono una competitività che non deve appartenere alla scuola pubblica, dannosa per gli insegnanti, e per i loro studenti. I professori dovrebbero collaborare per migliorare quello che è prima di tutto un ambiente di formazione, e aiutarsi per rinnovare una didattica ormai obsoleta (risalente in molte sue parti a quasi un secolo fa). E quando Renzi osa rispondere a chi muove queste critiche, che quei soldi “agli insegnanti servono”, sputa in faccia a dei lavoratori sottopagati rispetto a tutte le medie europee, così spesso invocate quando serve. Alimentare la competizione per i soldi a cui avrebbero diritto tutti è aberrante, e da parte del governo italiano, vile. Far passare per concessioni quelli che sono diritti, è sempre stato proprio dei peggiori regimi.
I più malevoli si staranno poi chiedendo se non sarà proprio quel famoso 10% dei coadiuvanti ad aggiudicarsi il bonus. Conflitto d’interesse?
Altra novità per quanto riguarda i poteri del preside, è la chiamata diretta ai docenti: “L’incarico è assegnato dal dirigente scolastico e si perfeziona con l’accettazione del docente” (co. 82). Così facendo si alimentano ulteriormente le disparità tra scuole, che sceglieranno il loro team per eccellere sulle altre, creando un circolo vizioso per cui quelle migliori avranno sempre gli insegnanti migliori. Un’idea distorta di meritocrazia che si riscontra più volte nell’articolo. Imbarazzante che il partito che la promuova si dichiari “di sinistra”. Ma tornando alla chiamata diretta, particolari problemi si riscontrano per l’organico dell’autonomia, che è su base triennale (in conformità col Piano Triennale dell’Offerta Formativa). Questi docenti, una volta assunti come dipendenti statali, potranno essere inclusi nel PTOF delle singole scuole, per poi o venire reintegrati nel successivo o venirne esclusi. Nel secondo caso sarebbero riassegnati ad un’altra scuola nel proprio ambito territoriale, ma, in mancanza di disponibilità, saranno mobilitati in altre zone, anche dall’altra parte del paese, come è già ampiamente successo. Questo comporta un conflitto fra il diritto al lavoro (chi rifiuta sarà escluso dalle graduatorie) e il diritto alla famiglia. Conflitto abbastanza evidente da aver spinto alcuni docenti a tentare di rendere incostituzionale la “Buona Scuola”.

Ma che cos’è il PTOF? un documento stilato da ogni scuola, su base triennale, che contiene indicazioni relative alla didattica, alla formazione degli insegnanti e degli studenti e che indica inoltre il fabbisogno di docenti di ogni singolo istituto. Affrontando il tema del potenziamento dell’offerta formativa la retorica renziana tocca i vertici dello squallore, proponendo un rinnovamento totale, ma dando ben pochi spunti e, soprattutto, mezzi per farlo. Esemplare il caso dell’arte, il cui miglioramento viene suggerito solo teoricamente, senza fondi appositi o organico in aggiunta (co. 7c). Lo studio dell’Arte necessita di esempi pratici e osservazione; l’approccio a miniature stampate su un libro scolastico, poco stimolante, deve essere integrato dalla possibilità per tutti gli studenti di accedere a tutti i musei e ad iniziative culturali in modo gratuito. Non si vuole infatti avvicinarsi all’Europa?
Altra competenza che si tenta di potenziare è quella linguistica, istituendo il CLIL, ovvero lo svolgimento di una materia in lingua straniera. Ancora una volta senza la minima organizzazione: i professori infatti non sono preparati e nemmeno gli studenti sarebbero in grado di sostenerne seriamente lo studio, non avendo ricevuto una preparazione adeguata.
Un progetto utile e stimolante come questo dovrebbe essere curato e integrato nell’istruzione di ogni studente dalla prima elementare, con un docente competente e in grado di portarlo avanti.
La vera innovazione nel campo della didattica sembra quindi riguardare la forma più che il contenuto. Il percorso formativo di ogni studente comparirà nel suo curriculum digitale (co.28) punto cruciale della legge 107, e che ne racchiude alcuni dei peggiori intenti: sono da inserire nel curriculum gli insegnamenti opzionali (che varieranno tantissimo da scuola a scuola), i percorsi di alternanza scuola-lavoro (su cui ogni studente avrà pochissima autonomia), nonchè attività extra-scolastiche culturali, artistiche, musicali, sportive, e di volontariato. Il curriculum verrà preso in considerazione anche in sede di esame di Stato. Assume quindi un ruolo importante nel percorso dello studente che dovrà valorizzarlo con tutte le esperienze intraprese nel suo percorso di crescita. E’ ridicolo non tenere conto delle differenze territoriali del nostro paese e pretendere che tutti gli studenti italiani abbiano le stesse possibilità. Premiare chi ha svolto più attività extra-scolastiche è quindi discriminare chi non ha avuto le stesse opportunità per motivi territoriali, economici e sociali. Ecco ripresentarsi la distorta idea di meritocrazia che il governo tenta di propinarci come una sorta di elisir.
Assurdo poi che lo studente sia tenuto a inserire nel curriculum anche attività svolte obbligatoriamente (come per esempio l’alternanza scuola-lavoro) e soprattutto a inserire tutte le attività svolte. Ancora una volta si sorvola completamente sull’autonomia degli individui, preferendo offrire a chicchessia un panorama completo, anche se esso non dovesse essere gradito o approvato dal diretto interessato.
Ultimo, ma non certo per importanza: è triste constatare come la didattica e il percorso formativo di ogni studente sia visto solo in relazione al suo ingresso e successo nel mondo del lavoro; e non alla formazione della sua persona e della sua cultura.

Esplicative a questo proposito le parole del premier: “Dobbiamo passare dal sapere al saper fare”. Noi, studenti, alziamo la voce per ricordare che la scuola è un organo centrale della democrazia, perché serve a formare la futura cittadinanza e classe dirigente. Questo è forse il problema: la creazione di questa classe. Nel nostro pensiero essa non deve essere una casta chiusa, un’oligarchia, ma il luogo dove gli elementi migliori, temporaneamente, possano mettere in gioco se stessi e il proprio lavoro in vista del bene dello stato, il bene comune. A questo deve servire la democrazia: permettere ad ogni uomo di avere la sua parte nella politica, termine che non è da intendere in senso stretto, ma come gli antichi lo percepivano; quel potere che si esercita su uomini liberi e uguali e si fonda sul loro consenso, il cui fine è il bene non solo dei governanti, ma anche dei governati. Purtroppo però ci troviamo a lottare con un governo, con una classe dirigente, che è lontana dalla nostra idea di politica, ben più interessata ai propri interessi che a quelli dello stato. Vedete, la scuola ha proprio questo alto carattere politico, dando la possibilità ad ogni uomo di scegliere e di poter emergere (art. 34 Costituzione), ed è proprio questo carattere che vuole essere estirpato dalla scuola pubblica. Significativo a questo proposito la totale assenza al comma 7, l’elenco delle finalità educative della scuola, di materie come filosofia e storia. Così la “Buona Scuola” introduce l’alternanza scuola-lavoro, obbligatoria per tutti gli studenti dell’ultimo triennio delle scuole secondarie di secondo grado. Una trovata geniale per fronteggiare la crescente (e preoccupante) disoccupazione giovanile; ed è infatti un percorso che viene istituito “al fine di incrementare le opportunità di lavoro e le capacità di orientamento degli studenti” (co. 33). Una trovata geniale insomma, che dà spazio allo sfruttamento del lavoro degli studenti a sfavore di quanti sono, o dovrebbero essere, assunti a svolgere gli stessi compiti. L’alternanza scuola-lavoro è un esempio valido della visione imprenditoriale che vuole minare alla formazione di una coscienza critica, unica forma di tutela contro gli abusi di potere, la disinformazione e la mala-informazione. Bisogna certo riconoscere che gli stage potrebbero essere un’opportunità per gli studenti interessati ad approfondire l’aspetto lavorativo delle loro competenze o a prendere in esame una possibile carriera, ma assolutamente non come viene proposta nella legge. Detto ciò i punti critici sono numerosi e vistosi:

  • Numero di ore troppo elevato: “i percorsi di alternanza scuola-lavoro [..] sono attuati, negli istituti tecnici e professionali, per una durata complessiva, nel secondo biennio e nell’ultimo anno del percorso di studi, di almeno 400 ore e, nei licei, per una durata complessiva di almeno 200 ore nel triennio.” ( 33) Evidente, inoltre, che negli istituti tecnici e professionali troppa sia l’attenzione alle competenze pratiche a discapito della formazione culturale e professionale. Troviamo quindi necessaria, in concerto con quanto introdotto dalla legge 107, la presenza di un insegnamento opzionale, a titolo facoltativo, che tratti con maggiore approfondimento le materie umanistiche, così da offrire agli studente degli istituti tecnici maggiori possibilità nella scelta del loro percorso successivo.
  • L’obbligatorietà. Su questo punto siamo in totale disaccordo con la riforma, poiché molti studenti possono essere, e sono, obbligati ad intraprendere percorsi non interessanti o ai quali non sono interessati. In quest’ottica bisognerebbe piuttosto introdurre insegnamenti teorici obbligatori per formare gli studenti a rapportarsi con la realtà lavorativa. Ci sembra inoltre più sensato lasciare obbligatoria la proposta da parte delle scuole, ma rendere facoltativa l’adesione degli studenti, cosicché : – rimanga un’opportunità per quanti interessati – si limiti la partecipazione a quanti lo sono, evitando così problemi alle scuole nella ricerca degli enti (si vedano le problematiche attuali). – si riduca la possibilità di sfruttamento della manodopera da parte degli enti In linea con il nostro progetto, per ridurre la dispersione e la perdita dei programmi scolastici da parte degli studenti partecipanti, troviamo necessario non spostare le attività di alternanza in ore extra-scolastiche (a motivo di non ledere allo studio personale), ed escludere i periodi di vacanza concentrando tutte le iniziative di una singola scuola in una medesima frazione di tempo, nella quale far ratificare dalla presidenza giustificazioni di assenza e il fermo dei programmi, per quanto possibile,  a favore di attività di approfondimento e consolidamento.
  • Il ruolo del preside: Il nostro nuovo preside-manager può scegliere con quali enti privati entrare in contatto e quali attività proporre senza il necessario consenso di professori o studen Troviamo necessario che, nella scelta delle iniziative di alternanza scuola-lavoro, venga affiancata al dirigente una commissione di insegnanti e, specialmente, di studenti. Tale commissione dovrà tenere conto delle proposte avanzate dal comitato studentesco nel periodo atto a scegliere le attività per l’anno, o triennio, seguente
  • La presenza dell’attività di alternanza scuola-lavoro nei curricula degli studenti.
    L’idea del curriculum vitae viene distorta dall’introduzione del curriculum dello studente, nel quale configureranno anche attività svolte obbligatoriamente. (Ricordiamo l’influenza di questo curriculum sull’esito finale della prova di stato.) Vogliono abituarci a lavorare gratis, senza che i nostri diritti vengano rispettati, senza che i diritti dei lavoratori vengano neanche presi in considerazione.  Sembra quasi che la scuola debba diventare il luogo di incontro e scontro dei giovani, non più abituati a pensare, ma a fare, cercando di emergere a discapito dei compagni.

Emerge in modo evidente l’introduzione e la valorizzazione della meritocrazia nella scuola pubblica; un sistema del tutto fuori luogo in un ambiente educativo, il cui fine dovrebbe essere quello di formare lo studente, accompagnandolo nella sua crescita individuale, culturale e collettiva, per spronarlo a migliorarsi e valorizzare sé stesso. Il miglioramento è personale e non deve avere come parametro il confronto con gli altri studenti, docenti o presidi.
Il concetto di meritocrazia, esteso con legge 107 a tutto il sistema scolastico, parte da condizioni sbagliate, ovvero la preesistente disuguaglianza sociale, economica e territoriale fra i singoli e le scuole.
Cosa c’è di positivo nello sviluppo della competizione fra studenti, che istituisce la necessità di valorizzarsi solo a discapito dei compagni, senza tener conto di sé in modo assoluto? Inoltre nasce così un sentimento di scredito personale, per coloro che non saranno i “migliori”, sicuramente più dannoso che utile. Non vediamo perché ricorrere alla competizione agonistica quando identifichiamo lo studio come un’attività stimolante e prettamente individuale che sì, può essere condivisa, ma che è il luogo dove il singolo sviluppa se stesso.
Nel curriculum dello studente sono inseriti anche gli insegnamenti opzionali (co. 28); essi, purtroppo, sono sbilanciati da scuola a scuola, a causa delle differenze socio-territoriali e da studente a studente, a causa delle diverse possibilità socio-economiche delle famiglie. E’ chiaro dunque che i vantaggi andranno ai già avvantaggiati.
Sempre nell’osservazione dell’applicazione meritocratica ad una fascia di soggetti non piatta, ma diversificata, abbiamo analizzato le prove INVALSI, che vengono confermate al comma 44. Forte la critica alla scarsa attenzione al contesto socio-territoriale di ogni scuola e allo scarso respiro che esse, con le loro crocette, lasciano alla soggettività degli studenti, che anzi vengono identificati con un codice a barre. Vengono infatti utilizzate come parametro di indagini statistiche, senza però essere in grado di valutare il sistema educativo, basandosi su prove di logica.
Ha inoltre attirato la nostra attenzione il comma 149 dell’articolo 1 del Documento delle Economie e delle Finanze del 2013 dove si legge: “a decorrere dal 2014 i risultati conseguiti dalle singole istituzioni [scolastiche] sono presi in considerazione ai fini della distribuzione delle risolse per il funzionamento”. Il nostro timore è che questa valutazione sia funzionale all’attribuzione di finanziamenti maggiori in favore, ancora una volta, delle scuole migliori.
Riteniamo che l’obiettivo dell’Istituto Nazionale per la Valutazione del Sistema di Istruzione dovrebbe consistere nell’individuazione delle problematiche di ogni singola scuola e dell’ambito a cui appartiene, funzionali così al miglioramento più che all’attribuzione di un premio.
Le INVALSI, inoltre, non solo partecipano ad indagini nazionali, ma sono parte, dal 2008, dell’esame di terza media; si riservano, così, di essere anche una prova di Stato.
Abbiamo osservato lo sviluppo della competizione fra studenti e fra istituti, ma ovviamente la “Buona Scuola” si prende cura anche dei professori, introducendo così l’agonismo nella dimensione lavorativa della scuola. Abbia già affrontando il tema del bonus ai docenti, sottolineando come un aumento di stipendio dovrebbe riguardare tutti costoro. Gli insegnati italiani sono svalutati e denigrati sempre più da uno Stato che non riconosce il loro ruolo fondamentale nella società e che, come già detto, mettendoli in competizione tra loro, svaluta la didattica e l’ambiente scolastico. Spesso le risposte a queste accuse si risolvono in mera retorica in perfetto stile renziano: “I gufi che non vogliono cambiare!”.
Noi siamo i primi, in quanto studenti, a voler rinnovare i metodi di insegnamento e migliorare le qualità dei professori (tecniche, ma anche pedagogiche), e infatti non ci opponiamo alla valutazione di quest’ultimi. Sia chiaro però che questa, che viene introdotta dalla riforma in vista di un premio, deve essere invece finalizzata al miglioramento. In relazione a questa visione, nel caso in cui un docente non venisse dichiarato idoneo all’insegnamento, dovrebbe essere introdotto all’interno di un programma in cui siano approfonditi il metodo di educazione e quello di relazione con gli studenti e, se necessario, le competenze circa la materia insegnata.

Andiamo dunque contro la legge 107, così chiamata “Buona Scuola”, che impone all’istruzione scolastica di adeguarsi ad una logica che non le appartiene, togliendole così il suo compito intrinseco e fondamentale, ovvero quello di formare ogni singolo individuo, nella sua persona e ogni studente nella sua istruzione. Ci rifacciamo ai principi di scuola pubblica e solidale, non finanziata e condizionata da enti privati e volta alla competitività; lotteremo finché anche il MIUR non si muoverà verso questa direzione. Troviamo che sia necessaria una seria riforma della scuola, che si rifaccia alle necessità di studenti, docenti e personale ATA e presidi, unici e veri elementi costituenti del mondo della scuola. La legge 107 non si preoccupa di ciò, quanto piuttosto a sopperire a mancanze statali in modi incoscienti (a voler vedere ottimisticamente il nostro governo) se si guarda al futuro.

Nonostante le numerose manifestazioni di dissenso, da parte di studenti e docenti un governo illegittimo ha promulgato, il 13 Luglio 2015, una riforma che ascolta le esigenze dell’economia invece di quelle dell’educazione.

La Scuola Pubblica, aggredita e non interpellata da chi ha scritto questa legge, deve riformarsi e non lasciarsi riformare!

Pensiero critico discusso, stilato e firmato da:
Collettivo Politico Manzoni e gli studenti che hanno partecipato al l ’autogestione  (svoltasi nel Liceo Classico A. Manzoni di Milano nei giorni dal 2 al 6 del mese Febbraio, anno 2016).

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