Educare ai diritti. Anche, soprattutto, sé stessi.

Diritti umani. Diritti dei bambini. Diritti delle donne. Diritto d’asilo, di cura, alla salute, all’istruzione.

Risulta evidente quanto strano e malsano il fatto che negli ultimi dieci anni, a un abuso del termine “diritto” si sia accompagnato la sistematica violazione, annullamento, svuotamento di significato dello stesso.

Forse è proprio stato studiato: ripetere una parola fino alla nausea, finché questa non perda completamente di significato.

 La gravità di questo meccanismo risiede nel fatto che la posta in gioco sia il futuro della nostra generazione e di quelle a venire. Come potremo trasmettere valori, idee e principi da difendere, se noi stessi non siamo in grado di farli nostri, di difenderli e di metterli in pratica?

 L’Italia pullula di corsi di formazione sui diritti umani. Di conferenze, workshop e forum (non ultimo, quello sulla Cooperazione allo Sviluppo, evento internazionale che si è tenuto nella nostra città) incentrati sui temi dei diritti umanitari, dello sviluppo e della lotta per la dignità dei popoli.

 Usciti dalle luci della ribalta di questi eventi, ci si guarda intorno, nella realtà quotidiana.

Spesso le stesse persone che siedono ali tavoli di lavoro o che svolgono consulenze pagate profumatamente sui diritti umani di cui sono esperti, non vogliono, o forse non possono, ma di fatto non pretendono gli stessi diritti per sé stessi.

 Quanto valore ha un principio, un’idea se non la faccio mia?

Quanto possiamo essere credibili predicando cose che poi non realizziamo su noi stessi?

 Alla base della distruzione sistematica dei diritti che i governi, le istituzioni internazionali e la politica hanno perpetrato in questi anni c’è proprio questo problema, tutto italiano: la mancanza di messa in pratica delle parole. Lo si può vedere anche nelle moderne “indignazioni”: in rete non si trova altro che espressioni di rabbia e di sdegno nei confronti dei politici, dei meccanismi di clientelismo e di mancanza di meritocrazia, di corruzione e di favoritismo. Alzi la mano, però, chi non ha visto moltissime volte quelle stesse persone che si sdegnavano, prendere un posto di lavoro o un privilegio immeritato per raccomandazione.

 La coerenza viene messa da parte, facilmente giustificata da motivazioni quali la crisi, il bisogno, l’emergenza.

 In Italia nulla cambia. Tutto però tende a peggiorare.

Stiamo sprofondando in un baratro vero, in cui il fondo che si sta raschiando, è quello della cultura della rassegnazione e della passività. Non si sentono altro che lamentele e parole di diritti, democrazia e rivoluzione: nella pratica, però, tutti si fanno schiacciare sul lavoro, violare nei diritti personali, imbrogliare e mentire facendo finta di non sentire. Nessuno rifiuta quei privilegi e quelle dinamiche che poi non si esita a criticare e identificare (giustamente) come uno dei problemi più gravi del nostro paese.

 Forse la stessa concezione di “diritti umani” per come è stata insegnata, trasmessa e diffusa nell’epoca post-colonialista (che purtroppo, per alcuni versi, dura ancora) è proprio quella di un diritto “altro da sé”: quello dei deboli, degli svantaggiati, di persone inferiori, a cui un’entità superiore e protettiva è in grado di dire cosa fare.

Quella stessa “entità superiore” non è in grado o non vuole però, specchiarsi nell’altro  e riconoscere l’universalità di quegli stessi diritti che predica: finendo per privarsene.

 Penso che l’epoca dello sviluppo, dei diritti umani e delle convenzioni ONU siano definitivamente fallite, private di ogni logica di esistenza e di razionalità: è ora di riprendersi la vita in mano, e con essa i diritti, quelli veri, concreti e di ogni giorno, che le popolazioni di tutto il mondo (quella italiana PER PRIMA) devono essere pronte a difendere con una lotta quotidiana e costante.

 

 

 

 

 

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