Kobane – La resistenza è vita (report #3)
Siamo da alcuni giorni a Suruç, la piccola cittadina rurale curda di circa 100.000 abitanti al confine con la Siria. E’ un posto a una decina di chilometri da Kobane, pienamente coinvolto, anzi travolto da questa guerra, eppure passa quotidianamente in sordina all’interno dei racconti mediatici che provano a descrivere quello che sta accadendo in questi territori. Nel raccontare la guerra a volte bastano le immagini dal fronte, le caricature embedded di un conflitto complesso ridotto all’osso e solo esclusivamente a beceri giochi politici, alle semplificazioni e ai luoghi comuni. Gli esempi sono tantissimi, italiani e non. Il racconto della resistenza (quella di SURUÇ-KOBANE città unite in maniera indistinta da un continuum umano che dalla città arriva al confine, senza interruzioni) impone l’assunzione di una responsabilità assai più complessa: avere a che fare con la gente dei territori che si trovano all’immediata periferia del conflitto. Provare, senza forzature, ad interpretarne gli umori, osservando con pazienza tutto ciò che accade attorno.
“LA RESISTENZA HA ROTTO I CONFINI”, è così che inizia il comunicato di qualche giorno fa scritto dei compagni di FRAKTIYON (http://fraksiyon.org/inadina-ay-parliyor/), Queste parole evidenziano innanzitutto come uno degli elementi strutturali della resistenza in atto sia il risultato di una straordinaria forma di cooperazione che ha mosso la solidarietà “non umanitaria” della cittadinanza di Suruç e della stessa di Kobane verso un obiettivo comune politico e sociale. Come abbiamo già scritto più volte, non ci sono differenze tra le due città. Mentre scriviamo queste righe sono le 10:00 del mattino, e i bombardamenti di artiglieria pesante a Kobane e quelli dell’aviazione sono da poco cessati. Abbiamo passato gli ultimi due giorni in giro tra la città ed il confine Abbiamo incontrato, conosciuto, stretto relazioni con i tanti e tante che abitano i bordi della città che resiste.
Siamo stati in uno dei tanti NOBET (i presidi autorganizzati ed autogestiti) che, a differenza di quello che scrive la stampa main stream, stanno lì con l’intento preciso di controllare che non ci siano scorribande dell’ISIS (e non solo) che da mesi , come pure abbiamo già detto, entra ed esce dal confine indisturbato per raccattare armamenti, generi alimentari e uomini.
In questo quadro i presidi sono l’unica sicurezza.
Compagni e compagne che si frappongono agli islamisti e alla compiacenza dell’esercito e della polizia turca rispetto all’ingresso delle milizie in Turchia e al loro rientro al fronte. La cosa ridicola è che le foto fatte attorno a questi presidi e diffuse su molte testate, ne fanno emergere una narrazione assolutamente falsata. Appaiono come luoghi abitati da “curiosi” i del conflitto, gente che va li a vedere come le bombe esplodono dopo essere state sganciate. Ai cari amici pennivendoli vorremo ricordare che questo è quello che facevano ed hanno sempre fatto gli israeliani durante gli attacchi attacchi in Palestina. I compagni e le compagne curde hanno tutta altra storia ed impostazione.
Qua si festeggia la resistenza non la guerra. In prossimità del confine abbiamo conosciuto Barac, portavoce del consiglio municipale di Kobane. Barac è uscito da Kobane qualche giorno fa ed è in attesa di rientrare in Siria.
Questo è un lungo stralcio dell’intervista che gli abbiamo fatto:
“Siamo sotto assedio da più un anno, e da cinque settimane l’IS è penetrato dentro la città. A nord siamo a ridosso dell’esercito turco, ed esposti ai passaggi tattici che lo IS riesce a compiere fra nord-est e nord-ovest infiltrandosi dal lato turco. A ovest abbiamo il fronte più protetto; siamo riusciti a respingere i jihadisti fino al villaggio di Tell Shaer, con un raggio di due km. I fronti aperti sono quello meridionale e quello orientale. A sud, lo IS puó contare sui rinforzi da Raqqa; a Est, controlla ancora un 20% di città. Liberare Kobane significa in pratica riuscire a far retrocedere i jihadisti di almeno tre km, e mantenerli a distanza. Ormai controllano una fascia di regionale troppo ampia tutto intorno a noi per sperare in qualcosa di più che forzarli alla tregua. Durante l’assedio lo IS ci ha tagliato l’acqua; la prima urgenza è stata quella di evacuare bambini e anziani verso Suruç. Noi che siamo rimasti ci siamo organizzati – io vivo nel centro città – scavando pozzi e razionando quanto rimasto nei container delle case abbandonate. Zucchero, sale, farina vengono reperiti con lo stesso sistema. Ogni tanto, dopo lunghe trattative, il governo turco permette alla municipalita’ di Suruç e ai villaggi vicini di mandarci del cibo, e apre il passaggio lungo la strada principale di Mürşitpınar che come vedete entra dritta dentro Kobane. Le armi e le munizioni invece non possono in alcun modo superare i controlli turchi, e sugli altri fronti siamo circondati. Quindi lo YPG ha istituito dei mini-commando incaricati di rubare le armi ai jihadisti. Fin dall’inizio abbiamo combattuto con tattiche di guerriglia. Non si puó fare altro contro i carri armati e i missili a corta gittata dei jihadisti. La tattica più efficiente sono le imboscate notturne, perchè i jihadisti non conoscono il terreno e sono meno agili negli spostamenti. I partigiani si organizzano in commando di massimo sei combattenti che procedono a doppia mandata: un primo raid va in avanscoperta e apre il fuoco, un secondo gira fra le case coprendo le spalle e raccogliendo le armi. Il fatto che da qualche giorno i bombardamenti occidentali colpiscono obiettivi mirati ci ha consentito di mettere da parte qualche arma in più”.
Suruç è la citta del cotone e del melograno. Un grande obelisco di fronte al municipio ricorda l’oro di questa terra.
Nelle immediate vicinanze c’è la piazza centrale del paese, lo spazio di incontro di centinaia di familiari della resistenza che passano intere giornate a organizzare gli aiuti, cercare i propri cari e trasmettere informazioni nel mezzo di città che, nonostante la solitudine e nel difficoltà, non perde la dignità e non si ferma. I negozi sono aperti, sono aperte le scuole e le banche, funzionano i mercati e i ristoranti e le sale da thè sono gremite di uomini e donne che si scambiano idee, informazioni e costruiscono i modi di far arrivare gli aiuti al fronte e nei numerosi campi profughi che la città ospita. Anche Suruç è in guerra ma la resistenza, a differenza di un normale conflitto, impone una particolarità: la vita.
Un libro di un po di anni fa, Bagdad café, raccontava la vita nella città iraquena durante l’occupazione. Ne raccontava la vitalità, la voglia di resistere e di continuare a vivere nonostante le bombe della coalizione. A Suruç sta succedendo questo.
Un paio di giorni fa abbiamo avuto la fortuna di conoscere e poter parlare con il sindaco della città. Un uomo che viene dalla base, come ci hanno detto in tanti , uno che passa giorno e notte a mettere le mani nelle situazioni più difficili, provando a risolverle: gestione campi, organizzazione amministrativa (in una città cresciuta di 160.000 abitanti in poche settimane), supporto alla resistenza, supporto ai NOBET e tanto altro ancora. Qui nulla è lasciato al caso, la presenza dei compagni e delle compagne del BDP (Partiya Herêman a Demokratîk) sul territorio amministrato da Suruç è capillare a garanzia della macchina organizzativa della resistenza.
Per oggi è tutto, il tempo stringe un pò. Teniamo a ricordare che esiste la piattaforma support Kobane per gli aiuti diretti ai territori (https://www.facebook.com/pages/Support-Kobane-Donate-to-show-practical-solidarity-with-Kobane/606733109436719?fref=ts), e ci teniamo ancora che tutti leggano la costituzione del ROJAVA, prima base per capire quale sia la posta in gioco (http://www.uikionlus.com/carta-del-contratto-sociale-del-rojava-siria/) e perchè è veramente necessario difendere questi territori.
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