Morales ripara in Messico. Bolivia a rischio massacro

Con i militari dalla parte dei golpisti la protesta nelle strade diventa «orda delinquenziale». E scatta la repressione. L’ascesa politica di “Macho Camacho”, che riporta la Bibbia a Palazzo Quemado. E la resistenza dei “poncho rossi”. E ora anche chi ha rotto con Evo per le sue politiche “estrattiviste” ora teme la destra razzista al potere.

Appena sabato scorso, prima che si consumasse il golpe, il comandante generale delle Forze armate boliviane Williams Kaliman, lo stesso che di lì a qualche ora avrebbe “suggerito” a Morales di rinunciare, era stato categorico: «Non ci scontreremo mai con il popolo». Ma evidentemente c’è popolo e popolo. Così, se, prima della caduta del governo, le forze di opposizione avevano potuto agire indisturbate appiccando il fuoco, aggredendo e assaltando, dopo, contro le proteste dei sostenitori di Morales contro il Colpo di Stato, la repressione è scattata puntualmente, con un bilancio già di diversi feriti.

«CONTRO GLI ATTI VANDALICI che causano terrore tra la popolazione, si impiegherà la forza in maniera proporzionale», ha dunque annunciato Kaliman lunedì scorso, inviando l’esercito nelle strade per eseguire «operazioni congiunte con la polizia». Esattamente ciò che aveva chiesto la seconda vicepresidente del Senato Jeanine Áñez, sollecitando alcune ore prima i militari a unirsi alla polizia nazionale proprio per fermare «le orde delinquenziali», vale a dire i militanti del Mas, il Movimiento al Socialismo di Evo Morales. Un invito, questo, che la senatrice dell’opposizione aveva rivolto nella sua probabile veste – già di fatto indossata ancor prima del via libera del Congresso – di nuova presidente ad interim, in quanto prima nella linea di successione dopo le dimissioni dei presidenti di Camera e Senato e del primo vicepresidente della Camera Alta.

E se il buongiorno si vede dal mattino, i timori espressi da più parti in Bolivia riguardo a rischi di un massacro dei sostenitori di Morales appaiono tutt’altro che infondati. Un nuovo appello a evitare scontri «tra fratelli» è venuto proprio dall’ex presidente, prima di salire insieme a García Linera sull’aereo per il Messico dove il governo di López Obrador gli ha concesso asilo politico «per ragioni umanitarie e in virtù della situazione di urgenza che si vive in Bolivia».

«Fa male lasciare il paese per motivi politici ma presto tornerò con più forza ed energia», ha assicurato Morales, ringraziando poi il presidente, appena arrivato in Messico, per avergli «salvato la vita». Ma nell’attesa che il Parlamento accolga la sua lettera di rinuncia e quella di García Linera dando vita a un governo provvisorio chiamato a convocare al più presto nuove elezioni, è difficile che la situazione possa tornare presto alla normalità.

Anche perché tra la quasi metà del paese che lo ha votato, c’è anche chi è disposto a resistere, come i migliaia di contadini dell’Altipiano – tra cui i ponchos rojos, gruppi di combattenti aymara – che sono scesi in strada a El Alto al grido di «ahora sí, guerra civil». E come la Confederación Sindical Unica de Trabajadores Campesinos, che ha annunciato blocchi stradali in tutto il paese come forma di «resistenza generale al Colpo di Stato» guidato da Carlos Mesa e soprattutto da Luis Fernando Camacho, leader del Comitato civico di Santa Cruz, da sempre bastione della ricca élite bianca di estrema destra.

Ribattezzato da più parti come il “Bolsonaro boliviano”, Camacho, imprenditore 40enne il cui nome è stato anche associato allo scandalo dei Panama Papers, condivide con il presidente brasiliano più di un tratto, dalla misoginia – ben espressa dal suo soprannome “Macho Camacho” – ai costanti richiami a Dio, con tanto di promessa, ripetuta per tre settimane, che la Bibbia sarebbe tornata al Palazzo di governo. Una promessa mantenuta pochi minuti prima della rinuncia di Morales, quando è entrato nell’antica sede del governo, il Palazzo Quemado, per depositarvi una bibbia insieme a una bandiera boliviana, simboli, nelle sue mani, di un potere coloniale a cui gli oppositori hanno reso tante volte omaggio in questi giorni dando fuoco alla whipala, la bandiera dei popoli nativi.

Pressoché sconosciuto all’opinione pubblica fino a poche settimane fa, Camacho ha in comune con Bolsonaro anche la fulminante ascesa politica, tanto da oscurare ben presto la leadership di Carlos Mesa, grazie al suo carisma e al suo radicalismo. Anche se – ma è tutto da vedere – ha assicurato di non volersi candidare alla presidenza. Camacho e i suoi supporter, come ogni altra espressione della destra golpista e razzista, non esauriscono tuttavia lo spettro degli oppositori di Morales. Tra questi, infatti, si incontrano anche gruppi di dissidenti del Mas, organizzazioni femministe e movimenti popolari che si sono opposti con forza alla sua ricandidatura dopo il referendum perso nel 2016, considerandola una forzatura della Costituzione e una svolta in senso autoritario. Settori, questi, che, dopo aver contribuito alla sua vittoria nel 2006 e aver sostenuto inizialmente il suo processo di cambiamento, erano poi passati a denunciare il modello estrattivista portato avanti con sempre più foga dal suo governo, a partire da quella mai rimarginata ferita dell’aspro conflitto del Tipnis, il Territorio Indigeno e Parco Nazionale Isiboro Sécure, attorno al contestatissimo progetto di costruzione di una strada che lo avrebbe tagliato in due, favorendo lo sfruttamento petrolifero, la deforestazione e l’ampliamento delle monocolture.

Ma in queste ore di incertezza, di fronte al rischio non trascurabile di una guerra civile, l’allarme lanciato da tali forze è che la destra razzista, colonialista e patriarcale riesca a imporsi con un bagno di sangue.

di Claudia Fanti

da il Manifesto del 13 novembre 2019

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