Ni un dia mas, cronaca di uno scontro sociale in Perù

Da diversi giorni in Perù sono scoppiate delle forti proteste diffuse in tutto il paese in risposta al colpo di stato parlamentare attuato dal Congreso, che lunedì scorso con una votazione a larga maggioranza ha rimosso il presidente in carica Martin Vizcarra, sostituito dal Presidente del Parlamento Manuel Merino.

La scintilla scatenante che ha portato a far sì che i peruviani scendessero in strada e riempissero le piazze in maniera così spontanea come non lo si vedeva dai tempi della caduta del regime di Fujimori nel 2000, è la sfiducia generalizzata nei confronti di tutta la classe politica che negli ultimi decenni ha governato il paese.

Di fronte all’ennesima crisi politica scaturita da equilibri di potere e interessi privati tra partiti, nel pieno di una pandemia che sta mettendo in ginocchio e colpendo soprattutto le fasce più povere, la popolazione si è riversata nelle strade organizzandosi in autonomia, attraverso social e chat, dandosi appuntamento ogni giorno nelle piazze principali e nei punti nevralgici di Lima e delle principali città.

Alle mobilitazioni lo Stato ha risposto con una brutale repressione da parte della Polizia e delle Forze Armate, ferendo un centinaio di persone e uccidendo due giovani manifestanti a Lima durante le proteste di sabato scorso: Inti Sotelo Camargo, 24 anni, e Bryan Pintado Sanchez, 22 anni. Inoltre dalle ultime notizie risulterebbero un terzo morto accertato e almeno una quarantina di persone dichiarate scomparse, che potrebbero aggravare il bilancio ufficiale.

 

Alla notizia delle uccisioni, il governo golpista ha rinunciato all’incarico costringendo Merino alle dimissioni, conservando la sua carica di deputato, e lasciando il paese senza presidente, in quanto il Congreso non è riuscito ad arrivare ad un accordo per designare una possibile soluzione. Di questa notte la notizia della scelta di Francisco Sagasti come presidente provvisorio del paese fino alle prossime elezioni presidenziali in programma per aprile 2021.

Le proteste hanno raggiunto l’obiettivo di far capitolare il tentativo di colpo di stato, ma la repressione che ne è seguita e l’uccisione dei giovani creano di fatto una rottura ormai inevitabile tra la popolazione e i suoi rappresentanti, difensori di un modello neo-liberista tutelato dalla Costituzione del 1993, eredità del regime Fujimori.

Basta pensare alle dinamiche che hanno portato a quest’ultima crisi: in sostanza un parlamento colluso , con 67 membri su 130 indagati, condannati o in attesa di esserlo per gravi reati di corruzione, frode ed evasione fiscale, ha sfiduciato il presidente per un’indagine ancora in corso relativa a una bustarella che egli avrebbe accettato tra il 2014 e 2016, per far andare al potere Merino, uomo di punta del partito maggioritario di destra “Accion Popular” con più di 50 procedimenti a suo carico, alcuni conclusi con condanne per cui non è perseguibile a causa dell’impunità parlamentare.

In sintesi una banda di corrotti che destituisce un presidente indagato, potenzialmente corrotto, per dare il potere a uno tra i più corrotti di loro, uomo di fiducia dell’èlite industriale e finanziaria del paese, che avrebbe garantito l’approvazione di leggi ad hoc per impoverire ulteriormente la popolazione e concentrare le concessioni e gli appalti statali in mano ai privati. Non a caso l’unica legge ad essere stata approvata dai golpisti è la concessione della manutenzione delle infrastrutture statali per la telecomunicazione a una multinazionale. Niente di sorprendente per un parlamento composto in buona parte da grandi imprenditori, proprietari terrieri e padroni di università private, recentemente chiuse per un’inchiesta riguardante fondi pubblici dirottati, sulla quale Merino avrebbe riaperto la questione per cambiarne le sorti nei prossimi mesi.

Questo quadro generale attuale è il riflesso della tragedia politica e sociale degli ultimi trent’anni in Perù, che trova le sue radici profonde nel suo passato coloniale e in questi 200 anni di repubblica, caratterizzati da un costante livello di corruzione molto alto nelle sue istituzioni. Di 6 presidenti eletti dagli anni ’90, sono 4 quelli accusati e condannati per gravi delitti: Fujimori primo tra tutti, colpevole di crimini contro l’umanità ed evasione fiscale, responsabile della sanguinosa repressione abbattutasi sui campesinos, i lavoratori e gli studenti, nelle università, nelle miniere e le fabbriche, durante gli anni della dittatura per sradicare e neutralizzare i movimenti politici e sociali, molto forti e numerosi in quel periodo in Perù, come ad esempio “Sendero Luminoso”. Alan Garcia, eletto presidente in più riprese dal 2000, nell’aprile 2019 preferì suicidarsi con un colpo di pistola piuttosto che finire in galera per accuse simili a quelle che hanno visto i suoi colleghi condannati nel corso degli anni, come ad esempio Alejandro Toledo, ancora in attesa di estradizione in California, o ultimo in ordine cronologico Pedro Pablo Kuczynski, 81 anni, di cui Vizcarra ne era il vicepresidente, che dal gennaio 2019 è in attesa di giudizio a casa in custodia preventiva, con l’accusa di frode elettorale.

Questa ondata di mobilitazioni ha sicuramente risvegliato il popolo peruviano, soprattutto i suoi giovani, numerosi, in prima linea e determinati. Testimonianze raccontano di come, nel corso delle giornate, si siano organizzati autonomamente contro i fumi dei lacrimogeni distribuendo aceto, mascherine e bicarbonato, formando brigate mediche di primo soccorso durante gli scontri, per soccorrere i feriti e fornendo supporto legale agli arrestati, grazie alla presenza di avvocati durante le marce. Elementi che stanno a indicare un grado di lucidità e consapevolezze importanti, a riprova e conferma che solo attraverso l’azione, la lotta, l’unità e la solidarietà di classe si possono porre le basi per un cambiamento radicale e un’avvenire migliore per il proletariato internazionale.

Sull’onda delle lotte e degli obiettivi raggiunti in Cile, e cavalcando il clima generale di protesta e critica al sistema capitalista che sta accendendo diversi focolai di rivolta in Sudamerica e in tutto il mondo, i peruviani ora non si accontentano dell’obiettivo raggiunto ma puntano al ribaltamento di un sistema marcio nelle sue fondamenta, reclamando a gran voce una riforma costituente che spazzi via la Costituzione del ’93 e l’abolizione dell’immunità parlamentare, due delle istanze principali che stanno prendendo piede negli ultimi giorni in piazza al grido di slogan come “Que se vayan todos” o “Corruptos a la carcél”.

In Perù sono già in molti a parlare di un prima e un dopo rispetto a queste manifestazioni, un punto di svolta necessario che si aspettava da tempo. Nonostante l’obiettivo di far destituire Merino sia stato raggiunto, proseguono le chiamate di piazza tra i giovani che, stanchi di non essere ascoltati e non sentirsi rappresentati dalla casta politica, non intendono fermarsi proprio ora dopo aver scoperto la loro forza uniti nelle strade. È ovvio che i partiti che si sono suicidati politicamente tentando il colpo di spugna, cercheranno di recuperare inutilmente un consenso che era già molto precario e ridotto, ma il risveglio espresso da parte delle masse nel mettere in discussione il sistema politico vigente è un aspetto fondamentale: denunciare il proprio sistema di democrazia rappresentativa attuale in quanto nega la nozione e l’essenza stessa dei principi democratici sicuramente non è la stessa cosa che rivendicare aumenti salariali, ripudiare le classi dominanti e la loro oppressione e organizzarsi per l’avanzamento di una società comunista, ma sicuramente è un fattore che può porre le basi per lo sviluppo di potenziali percorsi di lotta futuri, che portino i giovani a cercare di costruire collettivamente dal basso, una proposta e un progetto politico alternativo valido per il paese, capace di riempire nuovamente come i giorni scorsi le strade delle città, e far sì che le morti e i feriti dei giorni scorsi, non cadano invano nel dimenticatoio, ma al contrario, tengano viva e accesa la lotta

Bruno Muente

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