Un mestiere difficile: solo?

Oggi mi è capitato per puro caso tra le mani un rapporto uscito in data 11 Novembre 2011, realizzato da SISCOS (Servizi per la Cooperazione Internazionale) in collaborazione con grosse Organizzazione Non Governative italiane quali COOPI e COSV.

La SISCOS è, sulla carta, un ente senza fini di lucro, che tuttavia svolge attività di compagnia assicurativa, utilizzata in modo preferenziale dalle ONG e dalle associazioni italiane al momento dell’invio di un espatriato all’estero (come le identità“senza fini di lucro”e“compagnia assicurativa” siano state fatte convergere in un unico soggetto, è per me un mistero…).

Visto il soggetto che ha promosso questo rapporto dunque, non c’è molto da stupirsi dei grossi limiti che vi si incontrano, a livello soprattutto di contenuti, ma anche di finalità e di obiettivi: nonostante il titolo del rapporto sia infatti “Un mestiere difficile: Cooperazione Internazionale. Lavorare con le ONG”, sono ben pochi i contributi validi, realistici e intelligenti che da questo lavoro vengono forniti per comprendere un settore professionale tanto complesso, variegato e in continua trasformazione come quello dei cooperanti.

Una piccola premessa: fino a poco tempo fa il lavoro del cooperante non esisteva. E’ solo dal 1987 che il Ministero degli Affari Esteri Italiano ha dato vita ad una legge che riconoscesse le figure professionali impiegate nei progetti di cooperazione allo sviluppo o emergenza presso le organizzazioni da esso accreditate. Se consideriamo il fatto che i “primi cooperanti” risalgono probabilmente ai primi tempi dopo la caduta del colonialismo, capiamo che per moltissimi anni tutto il settore si è retto e basato sul volontariato (spesso di stampo cattolico o legato alle missioni cattoliche).

I due decenni che hanno seguito la nascita di queste figure professionali tuttavia, hanno visto due opposte tendenze: da un lato, durante gli anni 90, una grande crescita dei fondi destinati dal governo alla cooperazione, un aumento delle attività e delle opportunità lavorative ad esso connesse. Dall’altro lato invece, il primo decennio del 2000 è stato caratterizzato da un progressivo, inesorabile disinvestimento nel settore da parte delle istituzioni pubbliche, con conseguente riduzione dei finanziamenti, delle risorse umane e dunque, anche dei contratti.

L’intero settore (a parte i pochi che erano riusciti ad entrare precedentemente nelle fila del Ministero Affari Esteri e coloro che avevano possibilità di accessi privilegiati e personali) è piombato rapidamente in una profonda precarietà, da non intendersi solo come brevità e temporaneità dei contratti (la cui nuova tipologia di “a progetto” poteva anche calzare a pennello in quanto di collaborazione su progetti, in effetti, si trattava), ma più che altro come insicurezza dell’aspetto retributivo ( retribuzioni sempre più frequentemente non regolari, assenti anche attraverso meccanismi di stage infiniti, non commisurate alle responsabilità, alle esperienze e ai sacrifici richiesti), e come assenza totale di indennità e diritti (venendo completamente affidata alle ONG private, anche se sotto l’egida del finanziamento pubblico).

La grande precarietà ha creato in pochi anni un aumento vorticoso della mobilità dei cooperanti (cambi continui di datore di lavoro), facendo così definitivamente morire una delle caratteristiche storiche del lavoro del cooperante, e cioè il rapporto con la propria associazione di appartenenza.

Le conseguenze sociali della rottura del rapporto tra operatore (cooperante) e associazione è stato un elemento cruciale, in quanto ha generato, dal mio punto di vista, ulteriore precarietà: diventando un “semplice” rapporto tra datore di lavoro e lavoratore, spesso purtroppo basato sulle caratteristiche fondanti del sistema di mercato ( lo sfruttamento e l’assenza di diritti).

Il disinvestimento pubblico sulla cooperazione internazionale ha così avuto non solo un effetto “diretto” sulla riduzione delle attività di cooperazione stessa nei paesi, ma ha anche contribuito in maniera significativa a distruggere e a modificarne in peggio, il mercato del lavoro.

Tornando dunque al rapporto statistico della SISCOS, credo che analizzare una sfilza di dati governativi numerici, grafici, e indagini quantitative sul numero dei cooperanti italiani nei paesi, la loro età, le cause di morte e malattia, non sia molto esaustivo, né troppo interessante.

Sarebbe forse più utile, per analizzare e comunicare la difficoltà di questo lavoro, prendere in considerazione fattori quali la precarietà degli operatori, l’insicurezza delle retribuzioni e delle indennità (di fronte spesso, a contesti lavorativi e di vita di altissimo rischio, come i paesi in guerra), la difficoltà connesse ad una scelta di lavoro che è anche una scelta di vita (alla quale spesso non vengono offerte prospettive di stabilità, nemmeno dopo molti anni di trasferte all’estero), le enormi difficoltà a fare valere dei diritti senza alcuna rappresentazione collettiva, spesso senza informazione, formazione e coscienza (vi sono non poche ONG e ONLUS che si comportano come aziende spietate con i dipendenti, ma in posizione privilegiata e “intoccabile”, perché nascoste dietro nomi e parole come diritti, sviluppo, solidarietà).

E poi, aprendo una vasta ma importante parentesi, non si può parlare dei rischi di questo mestiere, rischi riguardanti la vita, o la salute fisica e mentale dei professionisti che lo svolgono, se non si analizza, con un minimo di onestà, la relazione sempre più stretta tra politiche estere governative (o europee) e attività di cooperazione internazionale.

Questa relazione (debole sulla carta ma sempre più forte nella pratica quotidiana, soprattutto nei limiti e direttive imposti), negli ultimi anni, ha completamente espropriato e reso fasullo il concetto di “non governativo” (reale solo in termini contrattuali e di benefici) e, soprattutto, di indipendenza, rendendo gli operatori umanitari bersagli quasi al pari dei militari in missione, o dei rappresentanti diplomatici e consolari.

Un contesto internazionale complesso e sempre più volatile, difficile da leggere e comprendere, fa il resto: ma la responsabilità dei governi (e delle agenzie ad essi connesse) è fondamentale nell’analisi dello spaventoso aumento dell’insicurezza e della percezione degli operatori umanitari in contesti già di per sé rischiosi e insicuri.

Per vedere il rapporto della SISCOS: http://www.siscos.org/index.php/pubblicazioni.html.

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