Hydronic Lift & Jabil, operai in lotta nella metropoli nella crisi
La chiusura di una fabbrica, il licenziamento dei lavoratori sono un’ingiustizia a prescindere, sono comunque un sopruso contro cui battersi.
Poi ci sono casi dove al danno si unisce la beffa, la crudeltà.
Periferia industriale di Pero, a sinistra c’è la discarica, in fondo alla strada la Hydronic Lift: in un capannone 19 operai producono pezzi per gli ascensori. Il lavoro c’è, nessun problema. E’ il 2 di agosto, il giorno prima della chiusura estiva: buone vacanze, ci rivediamo il 26.
Il 9 agosto l’azienda spedisce una raccomandata indirizzata a tutti: finite le ferie residue perché abbiamo deciso di avviare una cassa integrazione straordinaria per cessazione dell’attività.
26 agosto, davanti al cancello blindato con catena e lucchetto ci sono 19 operai.
All’inizio è sconcerto: “ma come, a me il giorno prima delle ferie hanno dato le chiavi dello stabilimento…”, “abbiamo finito il turno caricando sui camions i pezzi finiti, poi ci hanno augurato buone ferie!”, “e a giugno abbiamo fatto l’accordo per l’aumento del premio di produzione”. Poi allo smarrimento si sostituisce la rabbia che con il passare dei minuti diventa determinazione: inizia il presidio.
L’azienda ha bilanci in attivo, ordini e commesse: la scelta di trasformare la chiusura estiva della fabbrica in chiusura definitiva, oltre che becera per le modalità, offensiva per i lavoratori, viene motivata così dall’impresa: terziarizzare è per noi un risparmio. E terziarizzano in altre aziende del gruppo e nel varesotto, dove certo il costo del lavoro non è inferiore che a Pero. Allora il motivo della vergognosa operazione forse è un altro: liberarsi di una fabbrica storicamente sindacalizzata, di operai combattivi.
Mentre continua la mobilitazione, si susseguono gli incontri. La mattina del 10 settembre, gli operai decidono di rientrare nella loro fabbrica e scoprono che, nei giorni che hanno preceduto l’invio della lettera in cui annunciava la cessazione dell’attività, la Hydronic Lift aveva provveduto a “liberare” lo stabilimento dal frutto del loro lavoro (i pezzi finiti) e da tutto ciò che serve alla produzione: macchinari e materiale.
E’ sera quando al presidio si presentano l’avvocato e l’amministratore delegato della Hydronic Lift, catena e lucchetto in mano, per “ripristinare la legalità”: tornano a casa, con catena e lucchetto in mano. La lotta continua.
A Cassina de Pecchi, al km 158 della statale padana superiore, davanti ai cancelli dell’immenso sito di proprietà di Nokia Siemens Network, ci sono le operaie e gli operai della ex Jabil. Sono lì da due anni, da quando la multinazionale ha deciso di licenziarli tutti e 320, “via fax”: hanno difeso le loro macchine, le hanno “strappate” a Jabil, vogliono tornare al lavoro.
A primavera sembra che ce l’abbiano fatta: un nuovo imprenditore è disponibile ad affittare il capannone, a riavviare la produzione. Iniziano le trattative con Nokia Siemens Networks.
Comincia uno sporco balletto: la multinazionale gioca al rinvio e ad alzare il prezzo, e infine approfitta della bocciatura del Piano regolatore comunale (che vincola a destinazione d’uso industriale il terreno su cui sorge lo stabilimento ex Jabil) per tirarla ulteriormente alla lunga, costringere l’imprenditore interessato a fare marcia indietro, piegare (finalmente!) la resistenza operaia. C’è una sola cosa che interessa alla multinazionale: una bella area dismessa su cui speculare.
Il 9 settembre “quelli del presidio” rioccupano la fabbrica: non hanno lottato per due anni per mollare a un passo dall’obiettivo.
Rispondono così all’ennesima provocazione: “Nokia ha cambiato idea o a sempre bluffato. Gli operai della Jabil in presidio permanente fanno sul serio”. E intensificano le mobilitazioni.
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