Grillo nega lo stupro: in scena il patriarcato

Negli ultimi dieci giorni è andato in scena il peggior teatrino all’italiana: diversi atti, uno peggiore dell’altro. La regia?

Il patriarcato. Atto primo – Le risate

La protagonista è una delle radio più ascoltate nel nostro paese: Radio 105, con sede a Milano. In scena la comicità nostrana, che tanto ha da ridere sulla sessualizzazione del corpo delle donne… Che arriva a dire “fatti ‘na risata”, questa volta però riferendosi a episodi di stupro. La trama? Un lui che stupra non pensando di farlo.

E tu, non te la sei fatta ‘na risata? Sicuramente non se la sono fatta le donne sopravvissute, coloro per cui affrontare la violenza sessuale è un esercizio quotidiano. Da comico a tragico. Due donne hanno preso parola denunciando la gravità di quanto avvenuto in trasmissione.Da tragico a horror. La reazione tra il pubblico di 105 è stata di insulti, violenze verbali, parole piene di odio misogino vomitate contro le due donne che con coraggio hanno parlato, ancora una volta, ad un paese cieco e muto. Il pubblico in sala non ci sta e replica: “In Italia va in scena tutti i giorni una cultura che sessualizza il corpo delle donne: gli sguardi degli estranei, dei colleghi, degli amici; molestie verbali per strada; ammiccamenti non richiesti; professori che sbirciano le ginocchia delle studentesse; ricatti sessuali, abusi e stupri. La ridicolizzazione dello stupro e la sua sminuizione possono solo legittimare altra violenza”.

Atto secondo. Il Gran Jury

Entra in scena Beppe Grillo. Il personaggio filma se stesso mentre è impegnato nel monologo del padre preoccupato, e sciorina il peggior discorso pubblico sulla violenza di genere degli ultimi anni. Si agita davanti al video e sbraita parole intrise di cultura dello stupro: taglia con una lama il concetto di consenso, sbugiarda una giovane donna che ha avuto il coraggio di denunciare e abusa del suo potere mediatico per farlo; calpesta il difficile percorso che fa un* survivor per prendere coscienza della violenza subita ed i tempi che occorrono, brevi o lunghi che siano, per farlo.

Il pubblico interviene ancora ricordando che elaborare la violenza non è facile e che lo è ancor meno denunciare in un paese in cui spesso le vittime di violenza finiscono sul banco degli imputati, dei tribunali, dei media o -come in questo caso- di un auto proclamato giudice che approfitta della propria visibilità per denigrare una ragazza giovanissima. Ogni persona ha i suoi tempi di elaborazione e decisione: per incoraggiare i percorsi di fuoriuscita dalla violenza, dobbiamo rispettarlo.

Non a caso il termine per sporgere denuncia e querela è stato recentemente elevato a 12 mesi dal Codice di procedura penale ed è comunque un tempo troppo breve, tanto è vero che in Italia solo il 15% degli stupri vengono denunciati. Il Gran Jury dal palco incalza con una forzatura logica secondo cui non denunciare immediatamente dimostrerebbe l’inconsistenza del fatto, dando così uno schiaffo in faccia a tutte quelle donne che hanno scoperto che il reato era in prescrizione una volta trovato il coraggio e le risorse per denunciare. E, ancora, Grillo insiste che la tempistica delle indagini (lunghissime, a detta sua), dimostrerebbe l’innocenza del figlio, fingendo di ignorare quali siano i tempi della giustizia italiana e calpestando altresì la memoria di tutte quelle vittime che hanno fatto in tempo a morire prima che un tribunale procedesse con un decreto di allontanamento o una protezione adeguata rispetto ad una persona abusante.
La conclusione del Gran Jury è semplice: “Se lei ci ha messo 8 giorni per denunciare e i tribunali in 2 anni non hanno ancora emesso una sentenza, significa che è tutta una invenzione della ragazza”.

Se la ragazza per Grillo è una bugiarda, i ragazzi sono solo quattro coglioni, “che saltellano col pisello, così”, non quattro stupratori. Si sa no? In fondo sono ragazzate. Il pubblico ribatte che in Italia è la regola per chi denuncia finire sul banco degli imputati: per questo motivo molte preferiscono non dire nulla e affrontare il trauma in solitudine. È ancora visto con ostilità e con sospetto il fatto che una donna non reciti fino in fondo la parte di vittima distrutta dall’episodio di violenza: non si concepisce che una rifiuti il suo ruolo di oggetto sessuale e che si liberi dalla vergogna e dal senso di colpa di aver subito violenza.  Eccolo qui svelato il personaggio che non entra in scena, ma che governa le menti di tutt* coloro che calcano il palco: la cultura dello stupro, che porta ogni volta a legittimare la violenza sessuale. Peggio di uno stupro c’è solo la sua legittimazione. Lo stupro non c’entra niente con il desiderio, è invece espressione di possesso, potere e controllo su un altro corpo.

Il monologo grottesco di Grillo viene accolto da una serie di dichiarazioni altrettanto patetiche di uomini, ma anche di donne, influenti che hanno voluto farci sapere che “sono vicin* a Grillo come padre”. Della serie, lo stupratore è sempre il figlio sano del Patriarcato… Dal pubblico, però, si leva una voce: “E ai genitori della ragazza non siete vicini?”; “E la cultura del consenso? Mai sentito parlarne?”. Dal palco nessuna risposta perché la cultura dello stupro è trasversale a ogni gradino della piramide sociale. La violenza maschile sulle donne e di genere è una realtà in ogni contesto di vita: scuole, tribunali, parchetti, lotte sociali… Vi siamo tutt* immers*.

Cala il silenzio, si spengono le luci e sopra il palco, nel centro, si accende una scritta: “Se dico no è NO, se non dico sì è NO!” A ricordare cosa sia il consenso, ossia la possibilità effettiva di agire e scegliere liberamente in determinati contesti, senza ricatti, minacce, costrizioni o abusi di potere, anche solo psicologici, e con la possibilità di cambiare idea in qualsiasi momento. Se sia stupro o meno non si misura dai lividi sul corpo. Ci può volere tempo per riconoscere, accettare e ammettere di aver subito violenza. La parola di chi denuncia merita rispetto e ascolto e non va messa in dubbio.
La regia evidentemente è cambiata…

Atto terzo – La ribellione

Decapitat* il regista, la sedia della direzione passa al Transfemminismo. Arriva determinat*, forte della complicità, dell’alleanza, dell’empatia che l* contraddistinguono. In una mano il simbolo transfemm, nell’altra lo scettro dell’intersezionalità. Un crescendo di voci sovrasta il teatrino patriarcale: è la cultura del consenso che prende il palco e mette radici salde nel terreno del paese. Sono le sopravvissute ad uno stupro (rape survivor) stanche di venire sistematicamente invisibilizzate e di subire la vittimizzazione secondaria da parte dei media e, in questo caso, anche di personaggi pubblici che hanno cariche istituzionali, tra cui un parlamentare M5S e la vicepresidente del Senato.

Sono le realtà collettive sparse lungo lo stivale che hanno preso parola e hanno ribaltato tutti gli atti precedenti. Insieme percorrono una strada fertile. Perché la violenza è un sistema, è una struttura, ma, adesso, ne stanno minando le fondamenta. Ogni attacco alla cultura del consenso è sempre più scomposto, sempre meno efficace, sempre più mostruosamente ridicolo. La tossicità del “o sei a pezzi o non hai subito uno stupro” mandata via dalla scena, eliminata, cancellata. Centinaia di donne marciano sul palco alzando cartelli e narrazioni dal titolo: “Cosa hai fatto il giorno dopo?” “Sono andata a scuola”; “Ho preso 30 a un esame”; “Ho lavorato tutto il giorno”; “Sono rimasta con lui per altri quattro mesi”; ecc.

La scena ora è ribaltata: esce alla luce il sommerso, il fatto che spesso si va avanti con i propri piani e la propria routine, perché prendere coscienza di una violenza non è immediato e tocca molteplici aspetti personali e pubblici. Raccontare, condividere, non è solo il primo atto di denuncia ma è anche la consapevolezza di dover convivere con una mentalità che metterà costantemente in dubbio te e quello che hai vissuto. Le attrici sono compatte, unite, si dicono l’un l’altra: “Sorella, io ti credo” e poi un grido collettivo si leva potente: “La colpa non è mia, né di dov’ero, né di come ero vestita; lo stupratore sei tu!”

Il Gran Jury, però, riappare in scena interrompendo bruscamente il crescendo: annuncia a gran voce di aver avviato un’inchiesta privata per indagare la vita della ragazza abusata e di aver anche chiesto una perizia psichiatrica. Il copione del patriarcato è sempre lo stesso: infangare la dignità della vittima e minare la sua credibilità: quando non può vincere con mezzi leciti, utilizza tutti quelli illeciti a sua disposizione.

Nel frattempo si diffonde la notizia che quel video che riprende la violenza di gruppo sta girando ben oltre la magistratura che ha accesso agli atti giudiziari. Quel video è stato girato con il consenso della ragazza? Anche se questo verrà dimostrato, di certo non c’è il suo consenso sulla sua diffusione attraverso gruppi, chat, ecc.
Siamo di fronte ad un altro reato: la condivisione non consensuale di immagini intime.
Ma non passerà neanche questa: il pubblico reagisce e reagirà ad ogni atto di questa grottesca storia.  La sceneggiatura si scrive giorno per giorno perché è un atto quotidiano affrontare la violenza, così come il gestire la messa in discussione delle denunce di stupro: ogni giorno uno sguardo che sessualizza, ogni giorno una mano di troppo, ogni giorno…
Le* attrici* sono molto potenti: recitano la vita reale in scene corali e assoli che si rinforzano a vicenda, ridefiniscono cosa sia comico e cosa non lo sia, si abbracciano se ciò che urlano o sussurrano è tragico.

Le attrici siamo noi, sopravvissute, che ancora sopravviviamo a chi non ha creduto, a chi sminuisce, a chi violenta pensando di salvarsi, a chi ci scredita ogni giorno.
Siamo padrone del palco e il finale lo scriveremo noi!
Ciò che oggi è ancora quotidianità, lo sarà sempre meno, finché non resterà solo un brutto ricordo, di cui tenere viva la memoria per non tornare indietro.

Non Una Di Meno Milano

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