Marea femminista tra rabbia e favolosità
«Saremo marea», avevano annunciato. E lo sono state. Il movimento femminista Non Una di Meno è tornato in piazza in occasione della giornata internazionale per l’eliminazione della violenza maschile contro le donne e la violenza di genere.
Giovedì 25 novembre decine di nodi territoriali hanno organizzato azioni dislocate in tutt’Italia, per poi ritrovarsi ieri a Roma in corteo (autorizzato, tocca dirlo): erano presenti almeno 100 mila persone che hanno attraversato la città da Piazza della Repubblica fino a Piazza San Giovanni.
«Dopo quasi due anni di pandemia siamo tornate in piazza con moltissima forza, per ribadire che nonostante tutto non siamo vittime e che anche in questi due anni abbiamo costruito legami di sorellanza e di autodifesa che oggi hanno trovato finalmente un’esplosione».
Il corteo è stato aperto da uno striscione con scritto «ci vogliamo vive», portato dalle donne che lavorano nei centri antiviolenza femministi. Antonella Veltri presidente di Di.Re ha spiegato che oggi sono scese tutte in piazza perché «insoddisfatte delle politiche governative e delle politiche istituzionali che si sono mosse finora per prevenire e contrastare la violenza alle donne». Le risorse sono insufficienti «e da anni per quanto riguarda i Cav ci sono grossi problemi dal punto di vista della sussistenza e della sopravvivenza. Chiediamo misure concrete e strutturali».
Lungo il percorso sono state organizzate diverse azioni collettive. Sono stati agitati in aria, rumorosamente, i mazzi di chiavi che ciascuno e ciascuno aveva con sé: «Come sappiamo bene l’assassino ha le chiavi di casa e il picco di segnalazioni durante l’emergenza sanitaria dimostra ancora una volta che la casa non è un luogo sicuro. Agitiamo le nostre chiavi in aria per simboleggiare la rivolta alla violenza domestica, psicologica, in strada, sul lavoro, come segno di sorellanza e rifiuto della vittimizzazione». Alle 16.30 tutto il corteo ha preso parte al «grido muto», facendo silenzio per un minuto ed esplodendo infine in un grido di rabbia e sorellanza, un’azione ripresa dalle femministe cilene.
Maria Edgarda Marcucci, che 2017 era stata in Siria a combattere a fianco delle Unità di protezione delle donne curde, le Ypj, contro le milizie dello Stato islamico sostenute dalla Turchia e che è stata colpita dal regime della sorveglianza speciale per le sue lotte politiche, ha ricordato «tutte le donne che resistono sulle montagne, le donne del movimento NoTav e quelle del Kurdistan. Siamo qui per tutte loro».
Durante gli interventi si è parlato dell’intreccio tra sfruttamento e confini, di sex work con il collettivo femminista Ombre Rosse, di scuola, giustizia climatica, e delle cosiddette malattie femminili come vulvodinia, neuropatia del pudendo, endometriosi e fibromialgia per chiederne il riconoscimento da parte del sistema sanitario nazionale.
Centrale è stato il tema del lavoro: «Sono anni che riconosciamo la violenza maschile sulle donne e le violenze di genere come strutturali. E i femminicidi e le violenze fisiche più evidenti di cui leggiamo tutti i giorni sui giornali sono solo l’apice di una piramide della violenza che si manifesta in ogni ambito delle nostre vite: pensiamo alla violenza economica, alle molestie sui luoghi di lavoro, allo sfruttamento, ai ricatti della precarietà, che si intrecciano con gli abusi e le discriminazioni di genere. È sempre stato così, ma la pandemia e la crisi connessa al Covid lo hanno reso ancor più evidente. Sono state le donne, soprattutto, a doversi fare carico del lavoro domestico e di cura aumentato a causa della distruzione del welfare. Sono le donne che ancor prima dello sblocco dei licenziamenti hanno perso il lavoro a causa della chiusura delle scuole o perché i loro posti di lavoro sono sempre quelli più precari, peggio pagati e con meno tutele. E oggi in piazza ci sono tante lavoratrici che si stanno mobilitando».
Il movimento ha ribadito in un intervento dopo l’altro, «tra rabbia e favolosità», le proprie richieste: un permesso di soggiorno europeo slegato da famiglia e lavoro, un welfare «pensato sulle nostre esigenze», educazione sessuale, all’affettività e alla differenza di genere nelle scuole, accesso all’aborto, al teleaborto e alla RU486 in tutte le regioni e, tra le altre cose, cancellazione di ogni riferimento alla sindrome da alienazione parentale, che non ha alcun fondamento scientifico, dalle sentenze di tribunale sull’affido dei e delle minori.
All’arrivo c’è stata un’azione simbolica e finale: è stato acceso un numero di candele pari ai femminicidi, lesbicidi e transicidi avvenuti nel 2021. L’azione è stata curata dall’Osservatorio nazionale di Non Una Di Meno il cui lavoro, avviato due anni fa, è stato reso pubblico il 25 novembre. Nei dati dell’osservatorio sono stati inclusi «anche tutti i casi che riguardano persone trans e libere soggettività che sono oggetto della medesima violenza patriarcale che subiscono le donne».
I dati del 2021 finora, dicono che i femminicidi sono stati 104 e i transicidi 4. Tra questi 5 sono casi di suicidio, «consapevolmente inclusi perché indotti dalla stessa matrice». In almeno 7 casi c’è stata violenza o stupro prima dell’uccisione, in almeno 14 c’erano state denunce o segnalazioni, almeno 11 minori erano presenti durante i fatti e 35 minori sono rimasti orfani in seguito all’uccisione della madre. Tra i colpevoli: il più giovane aveva 16 anni, i due più anziani 88.
In almeno 12 casi si trattava di persone che avevano già precedenti penali connessi a violenze, persecuzione, stalking, abusi nei confronti delle loro attuali e passate compagne, mogli, madri. Nella quasi totalità dei casi, l’assassino era infine una persona conosciuta dalla donna o dalla persona trans* uccisa.
di Giulia Siviero
da il Manifesto del 28 novembre 2021
foto da NonUnaDiMeno
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