Vive, sane e libere – Chiediamo welfare e reddito di autodeterminazione

Le misure di emergenza di questi giorni, come ogni stato di emergenza, fanno risaltare delle condizioni che negli stati normali spesso vengono ignorate.

Milano e la Lombardia (e non solo) stanno affrontando chiusure, limitazioni e procedure che esasperano, quasi come in un esperimento, le disuguaglianze quotidiane. A partire dal welfare e, ovviamente, dalla salute.

In una Regione che ha fatto della delega al privato la sua forma di vanto, non possiamo non accorgerci di quanto questa emergenza pesi sulle spalle del pubblico, definanziato e impoverito. Un servizio pubblico che viene troppo spesso giudicato inefficiente per poterlo ancora di più smantellare, offrendo in cambio forme di welfare aziendale che non solo aumentano il divario tra chi lavora (e in maniera stabile) e chi no, ma anche che inseriscono il diritto alla salute in una logica costante di profitto ed efficienza. Un welfare aziendale, quindi, inaccessibile proprio per chi ha più bisogno dei diritto alla salute: anziani, disoccupate, lavoratrici autonome, etc.

Dicono “tranquilli”, muoiono solo le e i più vulnerabili”. Non stiamo per niente tranquill*: il welfare serve a tutt*, prima di tutto alle e ai più vulnerabili.

I/le medic* mancano, quell* che ci sono, sono costretti a turni stressanti e vengono affiancati da specializzand*. Anche il personale infermieristico diminuisce e naturalmente aumentano i turni, generando situazioni di stanchezza che portano a scarso controllo ed efficienza.

Vogliamo un pieno diritto alla salute, che passi da un servizio sanitario pubblico veramente accessibile, capace di tutelare tutt*, anche chi ci lavora.

E poi il lavoro, che continua come se niente fosse, tra scuole che chiudono e appelli a stare a casa. E questo fa emergere come le differenze di forme di lavoro e di contratto non siano solo sulla carta, ma impattino davvero sulla vita: chi ridarà le giornate perse alle partite Iva? Chi può permettersi di saltare giorni di lavoro? E come viene tutelata la salute di chi lavora? Nessuna attenzione o tutela per i lavori precari e i contratti atipici. Né il Governo, nei suoi vari organismi decentrati, né gli organismi di tutela dei lavoratori, come i grandi sindacati, sembrano essersi accorti dei cambiamenti produttivi avvenuti negli ultimi 50 anni.

Ma anche le misure alternative tanto decantate (telelavoro e smart working) non fanno che esasperare le disuguaglianze: e chi una casa in cui lavorare non la ha? E come si concilia il lavoro produttivo con quello riproduttivo? In Europa lo smartworking è poco utilizzato, ma in questo poco sono di più le donne ad utilizzarlo, per potersi prendere cura dei e delle figlie, dei e delle anziane, della casa, in un sovraccarico di lavoro vantaggioso per le aziende, meno per le donne. E queste giornate lombarde ci permettono di metterlo a fuoco: lavorare da casa non fa solo bene alla salute, ma permette di tamponare la chiusura delle scuole con un lavoro di cura dato per scontato. Mancano nel nostro paese la cultura, le condizioni contrattuali e i congedi per i/le partner che permettano ad una madre che si trova a svolgere lavori di pubblica utilità che non possono essere sospesi, di lasciare i/le figl* al padre, o al/alla partner. Le rare eccezioni ci sono, ma il Welfare e il contrasto della cultura sessista non possono essere lasciate alle singole persone virtuose.

E infine, sappiamo che le case non sono luoghi sicuri: cosa significa la quarantena per una donna che subisce violenza? o per una persona LGBTQIA+ discriminata dalla famiglia?

Chiediamo a gran voce welfare e reddito di autodeterminazione perché ci vogliamo vive, in salute, ma anche libere. Continueremo a chiederlo l’8 e il 9 di marzo, con la speranza di poterlo fare fisicamente insieme nelle piazze (maggiori indicazioni a breve).

Molte di noi, donne e persone come noi in questi giorni si stanno sentendo sol*, frustrat* è spaventat*: abbiamo raccolto alcune delle frasi con cui si sono sfogat*e interrogat*: Non ci siamo inventate esempi ipotetici perché non ce ne è bisogno. Condividere le vulnerabilità è il primo passo per prendersene cura tutt* insieme e diventare più forti. Chi se la sente può continuare a farlo.

Non Una Di Meno Milano

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