[DallaRete] Nun me parlà ‘e strada – Risposta a Cantone e alla Napoli per bene

davSenza perifrasi e senza metafore, il Pm Raffaele Cantone, in un’intervista al quotidiano La Repubblica a proposito delle cose accadute nel Rione Traiano dopo l’uccisione di Davide Bifolco, ha definito l’antagonismo sociale terreno fertile per la camorra. Ha detto precisamente questo e non solo. Durante la lunga intervista ha chiamato in causa la stessa vicinanza espressa da Heidi Giuliani alla famiglia del ragazzo freddato dal carabiniere, sostenendo che la cosa gli abbia fatto specie, trovandola incomprensibile. Poi ha detto anche tante altre cose che mescolano ignoranza politica e la più tipica superficialità delle toghe italiane e che contribuiscono a condire con ingredienti ancor più disgustosi la posizione insostenibile del Pm.

Una posizione così palesemente faziosa ed in cattiva fede, piena solo di paranoico terrore per i disordini sociali, da poter essere smentita facilmente dalla stessa storia non romanzata e non censurata delle lotte sociali contro un modello di sviluppo che al Sud prende le vesti dell‘imprenditoria criminale. Una storia che sicuramente Cantone non ignora ma che colpevolmente nasconde. Una storia pienissima di vicende e di biografie che dimostrano la tesi opposta a quella spiattellata stamattina sul giornale di Ezio Mauro e cioè che l’antagonismo sociale è lotta alla camorra, alla mafia e a tutte le criminalità organizzate, fin da quando queste hanno cominciato ad imporre il loro controllo reticolare e pervasivo sui territori del Sud. Basta scorrere i lunghi elenchi delle vittime che in centocinquanta anni sono cadute sotto i colpi dei clan, delle cosche, delle famiglie mafiose. Nomi di uomini e donne attivi nel bel mezzo dei conflitti sociali, sulle terre espropriate, nelle fabbriche illegali o legali che gestivano gli operai come schiavi , o ancora sui terreni della speculazione edilizia. Tantissime di quelle vittime sono state, prima di essere ammazzate, antagonisti radicali ad un sistema di connivenze in cui spesso la parte criminale indossava il vestito buono e nascondeva la pistola.

Basterebbe in realtà, per non ridurre la questione solo alle storie singolari finite in tragedia, ripercorrere la storia dell’antagonismo sociale meridionale tutto per scoprire che, ad esempio, il movimento operaio ha più volte dovuto fronteggiare due guerre parallele contro due nemici, lo Stato e le organizzazioni criminali, complici nei ricatti e nella violenza perpetrati sui corpi di chi lottava. E la storia recente non è affatto diversa, soprattutto per quel che ha riguardato quindici anni di lotte contro la devastazione ambientale. Terreni di scontro aperto con Stato e camorra dove, unici difensori del territorio erano quelli che qualcuno definirebbe e ha definito, a torto o a ragione, semplificando o meno, antagonisti.

Basterebbe insomma non fingere di dimenticare che mafia, camorra e ‘ndrangheta, hanno rappresentato e rappresentano alcuni tra i maggiori azionisti dell’impresa-Italia e sicuramente i più forti detentori di capitali e di liquidità nel Meridione e per questo, logicamente, gli obiettivi del conflitto e dell’antagonismo sociale. Omettendo questo, che è il nodo fondamentale attorno a cui si snoda l’unica lotta alla criminalità organizzata realmente efficace, si scivola, come fa Cantone e come fanno tanti altri opinionisti più o meno influenti, nella lettura del fenomeno criminale come comportamento antropologico e sociale ascrivibile a quella che semplificando si può dire povertà e marginalità sociale. Una lettura davvero pericolosa secondo cui la camorra nello specifico sarebbe un fenomeno criminale, basato solo sull’uso della forza, ascrivibile meramente alle fasce popolari dei quartieri periferici ed impenetrabili piuttosto che, come di fatti è, un sistema complesso e ramificato che vede certamente l’esistenza di un controllo territoriale attraverso lo sfruttamento della manodopera subalterna, ma anche e soprattutto una trama di relazioni e protezioni politiche, economiche, finanziarie che hanno determinato alcune delle più nefaste operazioni che hanno devastato nei decenni il meridione. Pensare che l’inasprimento delle pene nei confronti dei minori sia un punto d’eccellenza della lotta alla criminalità organizzata, come lo stesso Cantone afferma nell’intervista, dimostra tutta la miopia dell’antimafia che riduce tutto il fenomeno alle pistole, agli spari e ai simboli della delinquenza. Un’idea paternalista che mira a correggere i comportamenti e ad educare più che ad assumere la battaglia nella sua radicalità e pericolosità. Questa modalità è semplicemente una miope lettura del fenomeno al contrario, a partire dalle sue escrescenze e non dalle motivazioni profonde che lo generano. Le periferie sono luoghi costruiti sullo squallore, sulla bruttezza, sulla inesistenza di spazi a misura di socialità e di benessere. Sono i contenitori di tutte quelle biografie scritte dalla disoccupazione, dalla povertà eterna, dall’assenza di diritti e di sostegno economico. Sono luoghi di solitudine o di esperimenti collettivi a volte interessantissimi e positivi, altre volte pericolosi e violenti, ma sempre indipendenti da qualunque istituzione.

L’unica modalità di penetrazione che lo Stato utilizza per attraversarne i viali è una militarizzazione selvaggia, che si traduce il più delle volte in una lunga serie di abusi e minacce senza nessun controllo. Sono luoghi in cui il più delle volte le forze dell’ordine si fanno banda e giocano una partita di strada. La notte della morte di Davide è successo esattamente questo. I carabinieri, come banda armata nella notte di una periferia, hanno fatto un morto insensato per giocare alla guerra con la marginalità.

C’è un passaggio interessante nel comunicato che oggi ha rilasciato il fratello di Davide: “se pensate di giudicare noi dovete sapere che avete fallito, perché la Costituzione italiana è costruita sulla casa e sul lavoro e voi a me e a mio padre, come tanti altri padri di famiglia del Mezzogiorno, non avete dato né casa né lavoro…”. Questo, nella sua efficace immediatezza, è quello che Cantone non vede. Non vede i dispositivi di criminalizzazione che agiscono quotidianamente su un territorio. Non vede il rapporto tra negazione dei diritti e sedimentazione della governance camorristica che, ripetiamolo, non è gruppuscolo di banditi che assalta le diligenze, ma invece forza di mediazione sui territori, capace di garantire reddito e diritto all’abitare lì dove lo Stato non garantisce nemmeno la sopravvivenza. Se non si vede questo, o si è superficiali o in malafede. Due nodi, quelli che emergono dal discorso di Tommaso – diritto all’abitare e diritto ad un lavoro dignitoso e ben retribuito – che sono storicamente al centro dell’agenda politica dei movimenti antagonisti, parola usata dispregiativamente, ma che noi accettiamo di buon grado, poiché indica l’idea che le soluzioni ai drammi della nostra società non possono che venire dalla contrapposizione irriducibile al sistema economico nel quale le nostre vite sono immerse.

È per questo, in prima battuta, che il Rione Traiano non è Ferguson. Non è Ferguson perché a Ferguson le comunità nere che lottano contro un omicidio di stato non trova – sui suoi territori – alcuna forma di mediazione e, dunque, di pacificazione. Ciò che i professionisti dell’antimafia rifiutano di dire è che oggi il più grande garante dell’ordine pubblico nelle periferie si chiama camorra. È all’imprenditoria criminale, in prima battuta, che interessa frenare la protesta perché i riflettori si spostino dalle sedi di traffici che valgono decine e decine di migliaia di euro. La trattativa Stato-Mafia non è solo una vicenda macropolitica che riguarda la corruzione della classe politica, ma è anche – prima di tutto – un accordo informale sulla gestione dei territori e di governo delle vite che quei territori abitano.

Perché questo nesso salti e si sedimentino percorsi di resistenza ad un sistema che è prima di tutto economia di sfruttamento e, solo in ultima istanza, microcriminalità c’è bisogno proprio che sedimentino e crescano percorsi di antagonismo sociale. Percorsi, cioè, capaci di mettere nella giusta prospettiva episodi che sembrano irrelati e di spiegare come solo in un progetto di riqualificazione complessiva delle periferie possa essere individuata la cassetta degli attrezzi per una lotta alla camorra che non parli solo la lingua della repressione. Questo, però, è un esercizio difficile. Più facile, invece, per quella parte di città che gode di privilegi radicati (e ha il coraggio di chiamare diritti questi privilegi, ammantandoli di una universalità che non c’è mai stata) raccontarsi storie infarcite di sociologismo spicciolo che, nel criminalizzare la vittima – sostanzialmente – giustificano i veri carnefici.

E’ quello che è venuto fuori dopo la morte del povero Davide. Un pezzo della città di cui Cantone è una delle sirene predilette, pronta ad imbastire sferzanti invettive contro gli abitanti del quartiere ghetto in cui Davide ha abitato ed è morto. Quella parte di città, che da un piedistallo retto su quel po’ di potere conquistato nella miseria a suon di conservazione dei privilegi, vuole spiegare come si organizza il dolore collettivo dinanzi ad una morte per mano dello Stato . Quella parte di città che guarda all’opinione nazionale più che al proprio ventre; che ha paura più degli amici di Davide che odiano legittimamente lo Stato, che delle stesse forze dell’ordine fuori controllo che sparano e ammazzano ai posti di blocco. Ed ecco perché, quella parte di città e Cantone in primis sono terrorizzati dal gesto di Heidi, dalla presenza nel Rione, degli attivisti e delle attiviste della città, dalla collaborazione di associazioni che su tutto il territorio nazionale si battono contro gli abusi delle forze dell’ordine. Perché questi sono gesti politici precisi, che individuano nella morte del piccolo Davide un cancro che cresce sull’omertà della politica e sulla connivenza della magistratura e che riguarda la violenza e la brutalità che abita le questure, i commissariati e le caserme, non accidentalmente ma sistematicamente . Isolare l’episodio, imbastire un po’ di retorica buonista ed assistenzialista , serve a non fare i conti con le contraddizioni profonde che stanno dietro quell’assurda fine di una giovanissima vita.

Al di là di quello che professa Cantone, Davide è come Carlo, Federico, Stefano e tutti gli altri ragazzi accidentalmente torturati, pestati, ammazzati in uno Stato in cui regna assoluta impunità nei confronti delle divise. In questa storia di abusi e silenzio bisogna collocarsi, bisogna scegliere una parte precisa, e sì, essere radicalmente antagonisti a chi legittima e nasconde.

Collocarsi in questo scenario permette di scegliersi alleati, amici e compagni di strada. Il risultato di questa scelta è una sorta di impercettibile filo rosso che lega le donne e gli uomini che lottano quotidianamente contro gli affari delle mafie, a quelli che si battono contro la Tav o contro il Muos, a quelli che lottando subiscono violenze e vengono arrestati, a quelli che fuori le carceri chiedono giustizia, a quelli che provano ad impedire privatizzazioni e speculazioni sospinte e volute da aziende note alle cronache giudiziarie. Un filo rosso di antagonismi sociali che disegna la mappa della più radicale, intelligente e lungimirante guerra ai poteri criminali.

E’ la mappa di quelli che hanno sempre detto tutto in anticipo e a cui i tribunali danno sempre ragione con un ritardo colpevole e spiazzante.

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