Ho guardato “Gli anni spezzati” e adesso voto DC

Gli-Anni-SpezzatiGli anni spezzati – Il Commissario è la prima parte di una fiction andata in onda su Rai Uno le ultime due sere. Il tema affrontato è affascinante e inquietante: gli anni di piombo. Questa parte della fiction era concentrata sulla figura del commissario Calabresi, sul suo coinvolgimento nella morte dell’anarchico Pinelli e sulla sua morte stessa, attribuita a militanti della sinistra extra parlamentare di allora, in area Lotta Continua. In termini di ascolti è stata un successo, si è parlato di più di cinque milioni di telespettatori per la prima puntata. Fra questi cinque milioni di telespettatori c’ero anche io, per n.2 sere consecutive, al termine delle quali avevo cinquantadue anni e indossavo dei collant color carne.

La serie si svolge a Milano nel 1969 e il montage iniziale con voce narrante ha la doppia funzione di presentare uno dei protagonisti e impostare l’ambientazione dell’epoca. È chiaro che si è scelta una cifra stilistica sottile e sfaccettata già dalla prima frase pronunciata, che letteralmente suona così, “Questo sono io. Sono nato il 2 giugno 1946, come l’Italia,” e che nell’esatto momento in cui esce dal televisore e impatta le tue orecchie diventa: “Eccomi! Sono la metafora! Riesci a vedermi? Segui attraverso la mia vita comune le vicende della Grande Storia Italiana che ho attraversato!”

Ma forse c’era ancora il rischio che qualche animale domestico particolarmente poco incline all’apprendimento non avesse capito, perché Francesco, il poliziotto protagonista, aggiunge: “Siamo cresciuti insieme!”

La voce narrante prosegue fra immagini di lambrette e acconciature cotonate, riassumendo con la medesima delicatezza gli anni Sessanta ( “è arrivato il telefono!”) e i il difficile passaggio ai Settanta (“hanno cominciato a parlare di crisi, di disoccupazione… e poi sono arrivate le bombe”). Mentre trova anche il tempo per una rapida Elegia dello Sbirro (“ecco chi ero, un figlio di poveri che per sopravvivere indossava la divisa”) ti spintona fino alle prime scene dialogate.

Quindi incontriamo il Commissario Calabresi, che è interpretato da un attore emblema del cinema italiano, premiato in tutto il mondo e adorato dalle testate internazionali, Emilio Solfrizzi. Calabresi e i suoi uomini stanno tentando di convincere alcuni occupanti anarchici a sgomberare da un palazzo nel centro di Milano. Gli occupanti anarchici, sono così dei ribelli che sbattono pentole su un balcone. Qui compare Valpreda e per la prima volta emerge la santità di Calabresi, che al contrario di tutti “vuole solo parlare” e sa quanti “studenti e poveri disoccupati” si annidino fra quei facinorosi. Anche quando gli studenti e i poveri disoccupati gli tirano addosso una finestra Calabresi si limita a sospirare dolente toccando la corona di spine con su scritto INRI che indossa.

Già da questa prima scena si riprende il panegirico della Polizia Italiana che sarà una piacevole compagnia per entrambe le puntate. Ecco qualcuno dei momenti più toccanti, in ordine sparso:

“Noi tuteliamo l’ordine e ci chiamano fascisti.”
“Ma perché ci odiano?”
“Noi moriamo per sessanta mila lire al mese. Non basta lo stipendio, è una vocazione.”

Infine nonostante tutta la bontà dei poliziotti, gli occupanti anarchici insistono nel non voler andare via e allora un ufficiale ordina lo sgombero, poi però Calabresi procede alla moltiplicazione del pane e dei pesci e tutti si avviano abbracciati verso la cabina elettorale più vicina a votare democrazia cristiana.

Durante tutta la serie Calabresi non ha un momento di esitazione. Un dubbio. Una bassezza. È Assolutamente Buono, come un neonato o un gattino malato. Ovunque Calabresi vada lo fa per illuminare i presenti con lezioni sul senso profondo di Stato e Comprensione e Rispetto, oppure per essere totalmente innamorato della moglie e padre perfetto.

Non che debba necessariamente significare qualcosa, ma Calabresi era noto negli ambienti della sinistra extra parlamentare milanese come Commissario CIA o Commissario Finestra. I suoi metodi sono stati messi in discussione fino a diventare un processo con accusa di omicidio, nel caso dell’anarchico Pinelli.

Ora, sapevo che la chiesa cattolica sta celebrando un processo di beatificazione nei suoi confronti. Solo non credevo che la fiction su di lui dovesse esserne parte integrante.

Nel frattempo la storia prosegue. Il poliziotto-metafora viene mandato sotto copertura negli ambienti anarchici, dove ha modo di conoscere da vicino i giovani rivoluzionari. Chiaramente qui incontra anche quella che è destinata a essere la sua donna, la musicista Jenny. Affinché la cosa non sfugga proprio a nessuno da casa, il protagonista la fisserà inquieto per ogni singolo secondo che lei passerà in scena, da qui fino al momento in cui non cominceranno a fare del sesso.

Se qualcuno che ti è stato appena presentato ti guardasse con la stessa muta insistenza in un vero bar in una vera vita chiameresti i carabinieri, ma ancora non basta, sicché qualcuno ha ritenuto opportuno, per l’economia della scena, inserire la seguente battuta nella sceneggiatura: “Guarda che… quelle come lei… danno la scossa.

Nessuno fra i contestatori che il poliziotto incontra ha uno spessore politico minimo o una vita o un carattere. È come assistere a un’animazione composta dalla sezione “fricchettoni” di un sito di stock photo. Per la Rai i movimenti di protesta giovanili del tempo si possono riassumere in giovani che ciondolano sotto poster generici di Che Guevara e Jimi Hendrix. Occasionalmente fumano delle sigarette o guardano l’allunaggio. Naturalmente, trovandoci a Milano alla fine degli anni Sessanta, nessuno ha un seppur minimo accento milanese o una storia vagamente utile per raccontare la città in quegli anni.

Ovviamente una delle scene più importanti della serie è l’interrogatorio e la seguente morte dell’anarchico Pinelli, che probabilmente è il momento che aspettavano un po’ tutti. La sequenza dei fatti è stata oggetto nel tempo di diversi procedimenti giudiziari e chiamarla “controversa” è come dire che la seconda guerra mondiale è stata solo un “dissapore”.

Non ne Gli anni spezzati, dove tutto è meravigliosamente chiaro: Calabresi era certamente fuori dalla stanza, l’interrogatorio è stata una quieta chiacchierata in cui a Pinelli si dava del lei e il poverino infine si è suicidato, anche se ci si guarda bene dal mettere in scena il momento della caduta. Tanto che bisogno c’è? Sarà mica una scena importante.

Non che il male all’interno dello Stato non venga rappresentato, ci sono i cattivissimi dei Servizi che parlano per enigmi minacciosi e gli ufficiali violenti, ma complessivamente tutti vengono trattati con la profondità e le sfumature altrove riservate a malvagi del calibro di Pietro Gambadilegno e Cthulhu.

La messa in scena in generale è così artificiosa che puoi distintamente sentire il teschio di Pinelli nella sua bara che si gira dall’altra parte e piange ogni volta che vengono inseriti dei filmati di repertorio dell’epoca, ma ancora qualcuno deve essersi posto il dubbio che fosse troppo poco finto, così si è optato per una colonna sonora che aiutasse gli spettatori a orientarsi secondo un semplice schema:

Violini = Sta per succedere un casino
Pianoforte = È il momento di soffrire

Inoltre si voleva essere sicuri che la complessità del tema non fosse respingente per lo spettatore medio di Rai Uno e allora si è fatto posto a elementi che risultassero familiari, come il cattolicesimo. Un po’ come io trovo sempre un modo per inserire nelle mie conversazioni l’aneddoto di Putin che spara in testa a una tigre, in Rai si trova sempre un modo per non far trascorrere venti minuti consecutivi di girato di una qualsiasi cosa senza l’apparizione di un buon umile prete che dia preziosi consigli. Deve essere un problema compulsivo.

Quando si passa a Piazza Fontana e alla svolta delle indagini seguenti verso il terrorismo di matrice nera si riesce, con capacità di visione selettiva non da poco, a ignorare del tutto i documentati legami fra l’eversione fascista e i servizi italiani concentrandosi invece, come qualunque autore avrebbe fatto, sulla appassionantissima storia d’amore fra la musicista e il poliziotto e relegando a una marginalità offensiva l’intreccio riguardante gli eventi storici.

La sensazione è quella di assistere a un bad trip da micropunte di un personaggio di Un Posto al Sole in una puntata particolarmente cupa. Parte del materiale narrativo più affascinante e intenso in assoluto di cui la nostra storia recente disponga viene invitato a cena fuori in un ristorante elegante per poi essere narcotizzato, stuprato e fatto a pezzi in un vicolo, non necessariamente in quest’ordine. Probabilmente nessuno si aspettava dalla prima serata di Rai Uno comunicati antimperialisti letti da uomini barbuti, né una solida e coraggiosa analisi di un periodo storico complesso. Nessuno si aspettava Volontè. Inoltre tutti conoscono l’approccio della Rai alla serialità televisiva e non è che ci si facesse illusioni di stampo marxista leninista.

Però sarebbe stato preferibile dedicarsi alla stesura di Don Matteo 9000 o Il Nonno Salva Tutti o qualsiasi altra cosa garantisca introiti alla rete senza dover tentare di uscire dal codice solito di commedie per famiglie affette da problemi cognitivi e gialli risolti da investigatori sessantenni, e lasciar stare i morti. Meglio: non sarebbe stato preferibile, sarebbe stato più rispettoso. Inoltre nella mia testa si è aperto un oceano di spaventose possibilità che non avevo mai considerato e che invece la messa in onda di Gli Anni Spezzati rende più concrete e minacciose. Sì, perché una volta passati dalle agiografie dei papi alla storia recente e agli episodi controversi di materiale ce n’è tanto: mandando giù il plasil penso a qualche titolo—Cucchi, Aldrovandi, la caserma Diaz.

Mi agito un po’, cerco quindi di convincermi che si tratti soltanto di un modo particolarmente brutale per far smettere le persone scolarizzate di lamentarsi di Un Medico in Famiglia e che tutto si risolverà andando a portare un fiorellino sulla tomba di Petri e tornando serenamente a girare vite di Padre Pio.

Per un po’ ci credo pure.

Altri articoli:

Dal blog di Luciano Muhlbauer

Da Il Manifesto

Tag:

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *