Torpignattara nell’anno del Dragone
Difficile raccontare il corteo che ha invaso ieri Roma, da Piazza Vittorio a Largo Perestrello, nel cuore di Torpignattara. Difficile restituire la potenza dell’impatto visivo delle migliaia di persone, per la maggior parte dai tratti asiatici, che sfilavano sullo sfondo dell’acquedotto romano, al tramonto, per poi invadere i vicoli che costituiscono un labirinto tra due arterie fondamentali del traffico di Roma: Prenestina e Casilina.
L’evento è tragico, la morte di Zhou e Joy, padre e figlia di 9 mesi.
Bonini ci ha raccontato, su Repubblica, con solerzia investigativa, di come Zhou e Lia, la moglie, fossero i “portavalori” dei cinesi irregolari con il compito di trasferire le rimesse in Cina, inoltre, ci spiega l’importanza del traffico di euro che ogni giorno si muove tra Piazza Vittorio e Torpignattara.
La manifestazione di ieri eccedeva, però, a nostro avviso, sia le semplificazioni “economiciste” che la solidarietà. Per non parlare del marchio istituzionale della convocazione che imponeva come parole d’ordine “No violenza, più sicurezza”.
Le migliaia di persone, forse più di diecimila, che ieri hanno sfilato con crisantemi e candele per le strade del Pigneto e di Torpignattara, erano certamente appartenenti alla comunità cinese di Roma e dell’hinterland con la chiara intenzione di dare un’indiscutibile prova di forza in termini di organizzazione e capacità di mobilitazione alla città, ma non solo. Erano anche le altre comunità immigrate organizzate, quella bengalese ad esempio, era il quartiere meticcio, giovane e popolare di Torpignattara, che scendendo in piazza sembrava voler, innanzitutto, scardinare le semplificazioni dicotomiche che spesso si usano per differenziare gli italiani dai migrati, italiani contro migranti.. Ed eravamo noi, gli studenti, i giovani, prime e seconde generazioni di precari e disoccupati, spesso, altamente qualificati. Ed eravamo lì come una voce di movimento, ma anche come parte integrante della composizione sociale di quel quadrante di città. E molti di noi erano lì per un fattore, semplice ma non secondario, di prossimità.
G. Santoro spiega bene come i confini di “Torpigna” non coincidano con le immagini che ci trasmettono i media, soprattutto in simili, nefaste, occasioni che narrano di una zona periferica che facilmente può assumere i tratti di una terra di nessuno, dove migranti e italiani sono costretti a combattere una guerra tra poveri senza né vinti né vincitori.
In realtà, per restituire efficacemente la nostra prospettiva sul pomeriggio di ieri, occorre posizionarsi proprio qui. Noi c’eravamo, perché Torpigna è dove abitiamo, dove viviamo, dove camminiamo tutti i giorni. Non è un luogo avulso da noi, dalla nostra sussistenza e dalla nostra socialità. Non è centro storico, ma non è neanche periferia. Anche perché la narrazione main stream intende la periferia come quella speculazione immobiliare, fuori dal Raccordo anulare, che moltiplica quasi scientificamente veri e propri ghetti e coltiva disagio sociale che scimmiotta le banlieu francesi o gli slum nordamericani. Torpignattara è un territorio, tra altri con caratteristiche simili, in ridefinizione, scampato (per ora) alla speculazione selvaggia della gentrification, che corre verso la direttrice sud-est della metropoli-Roma, anzi, per dirla con Alemanno, dietro il grande affare di Roma Capitale. Al posto dei locali chic o radical chic, aprono a Torpignattara i kebabbari, le pizzerie gestite da indiani, gli alimentari bengalesi, i call center, i money transfert, le lavanderie a gettoni, i cianfrusa-shop, quelli sì, rigorosamente cinesi. Eh sì, infatti, Torpigna non è Chinatown, non è sicuramente ciò che è stata Piazza Vittorio negli ultimi decenni. E’ un incrocio di differenze che ha, però, un minimo comun denominatore: la sopravvivenza dentro la crisi e l’invenzione di forme di resistenza che escono dai canali formali della valorizzazione del capitale, dalle regole imposte dall’austerity e dalla retorica dell’integrazione a tavolino. E’ l’espressione di una composizione sociale che quotidianamente confligge con i processi di ghettizzazione dei nuovi poveri, siano essi migranti o italiani, giovani e giovanissimi o pensionati. Non molto tempo fa la richiesta di integrazione e diritti, uguali per tutti, era giunta, non a caso, agli onori della cronaca, dalle scuole elementari Pisacane e Iqbal Masih.
Secondo Bonini, Zhou e Lia sono stati rapinati da due maghrebini. Tralasciando l’insensibilità linguistica dell’espressione maghrebini, laddove la primavera araba sembrava averci insegnato la dignità di popoli e di storie complesse e in completa ridefinizione, una cosa ci sentiamo di dirla. Non è finita la primavera araba. Come tutte le rivoluzioni, se di ciò si è trattato e gli editorialisti di Repubblica sembravano esserne i più convinti, si porta dietro contraddizioni, problemi, direzioni inedite e contaminazioni.
L’Italia ha osannato la caduta di Ben Ali in Tunisia, piazza Tahrir in Egitto e la guerra in Libia contro l’ex amico Gheddafi. Ora però, la gestione della “fase due” sembrerebbe essere ben più difficile del previsto per un’Italia sull’orlo del default e un’Europa scricchiolante, messa in ginocchio dalle imprevedibili oscillazioni dei mercati finanziari. Si tratta, ora, di parlare con le persone in carne e ossa, di capire cosa cercano in Europa, di come incidono sull’economia nazionale e di un mercato del lavoro respingente e selettivo, in alto come in basso.
Ora va trovata una soluzione per il rilascio del titolo di soggiorno a chi fugge dalla guerra in Libia che garantisca loro una vita degna al di fuori dell’insicurezza e della precarietà cui sono destinati e va, in generale, costruito e ampliato un discorso che ribalti la richiesta di più sicurezza in più accoglienza e solidarietà. Un discorso non retorico, ma reso concreto e politico da un rinnovato dialogo con le comunità migranti, con le associazioni che hanno fino ad ora sostituito lo stato in termini di servizi e garanzie.
Non tutti i migranti presenti a Roma e in Italia hanno la capacità organizzativa e di mediazione adeguata per comporre cortei ordinati, ma la solidarietà scesa in piazza ieri mostra certamente come nessuno è cieco e sordo davanti ai soprusi, ma anche di fronte al vuoto di diritti. Le istituzioni, più che presenti ieri “a prescindere dal colore politico”, devono ancora imparare che il governo della crisi e la gestione della governance metropolitana significa dialogo, welfare, diritti, tolleranza, formazione garantita per prime e seconde generazioni (una questione che è stata addirittura tema centrale delle dichiarazioni del presidente Napolitano, uomo politico che riscuote un indiscusso consenso). Il laboratorio del pacchetto sicurezza ha prodotto paura e caos, non solo tra i migranti, ma anche tra i giovani (e non) italiani, precari e disoccupati, che iniziano a percepirsi come cavie di un laboratorio che li vede espulsi, privi di diritti e di prospettive. Cavie della “norma eccezionale” che fa del debito un ricatto inestinguibile e dei diritti di cittadinanza un traguardo utopistico, almeno per il 99%, come risuona nelle strade di tutto il mondo.
E allora come interpretare la potenza finanziaria della comunità cinese a Roma e delle rimesse dei migranti se non anche come un dispositivo di sottrazione e di mutualismo, di redistribuzione della ricchezza sociale e di organizzazione autonoma –e comune- del Welfare?
Su tutto questo ci interroghiamo all’indomani della manifestazione per Zhou e Joy, convinti che solo la produzione di dispositivi organizzativi comuni, meticci, trasversali possa garantire la costruzione di territori nei quali le differenze riescano a vivere il presente inventando nuove forme di esistenza dentro e oltre la crisi.
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