La Banca Europea degli Investimenti ferma i finanziamenti al fossile

Una notizia attesa da tempo.

Due giorni fa la Banca Europea degli Investimenti, il potentissimo braccio finanziario dell’UE ha deciso di porre uno stop ai finanziamenti all’energia fossile dalla fine del 2021.

Come energia fossile si intende carbone, petrolio, ma soprattutto gas. Ed è proprio sul gas che si è combattuta la più aspra battaglia e sono rimasti aperti alcuni margini di mediazione. I paesi dell’Est con in prima fila Polonia, Romania e Ungheria si sono a lungo opposti alla svolta chiedendo ampi spazi di manovra sul tema del gas naturale, che però ricordiamo, è anch’esso di derivazione fossile. La questione del gas, del resto, è al centro delle inquietudini geopolitiche degli ultimi anni e dietro ognuno dei conflitti che si è aperto sullo scacchiere eurasiatico fa capolino prepotentemente questo argomento (e la Russia di Putin).

Alla fine sia Germania che Italia (insieme alla Francia) si sono decisi a votare per il disinvestimento sul fossile. Una decisione tutt’altro che scontata che, va detto, ai tempi del governo giallo-verde forse non sarebbe stata presa.

La BEI ha dunque deciso di investire massicciamente sulle rinnovabili e sui progetti di efficienza energetica.

Oltre alla decarbonizzazione e all’efficienza energetica si punta anche alla produzione decentrata di energia e allo stoccaggio innovativo. Belle dichiarazioni di intenti che dovranno trovare una ricaduta pratica.

Tutto bene quel che finisce bene quindi?

Sì e no.

Perché le questioni aperte su quello che viene definito il “Green New Deal” facendo il verso al New Deal di Roosevelt degli anni ’30 con cui gli Stati Uniti uscirono dalla Grande Depressione restano molte.

La prima evidentissima agli occhi di molti attivisti per la giustizia climatica è che la parte più dinamica del capitalismo internazionale sembra aver trovato la “gallina dalle uova d’oro” per continuare a fare soldi riconvertendosi e dandosi un tono progressista e ambientalista. E’ evidente però che senza un cambio nel modello di società chi fa affari continuerà a farne e chi ha pagato continuerà a pagare.

L’altra grande questione è, come ci sta mostrando in modo dirompente la questione ILVA in questi giorni, la riconversione. E’ chiaro che non si può parlare di riconversione senza fare i conti con le migliaia di lavoratori occupati nel settore delle energie fossili. Prioritario è offrire una prospettiva credibile in modo da evitare lo scontro tra chi, pur consapevole della nocività delle produzione, difende accanitamente il proprio posto di lavoro e chi si occupa solo ed esclusivamente della giustizia climatica. Come insegnano egregiamente le elezioni americane del 2016 la scelta green di Obama ha scontentato migliaia di lavoratori della Rust Belt che si sono sentiti abbandonati e hanno votato in massa Trump.

Come dicevamo prima è fondamentale che i costi della svolta energetica siano a carico di chi si è arricchito fin’ora e non degli strati più bassi della società come ha esemplarmente mostrato la vicenda dei gilets jaunes in Francia dove Macron voleva ammortizzare i costi della sua scelta green a chi, per motivi di lavoro e sopravvivenza quotidiana (come per esempio il mondo contadino) deve optare per il diesel.

Un passaggio importante comunque. Impensabile fino a qualche tempo fa.

 

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