Ore d’aria – Quinta puntata
In questo spazio ci prendiamo un po’ di tempo: quello che si può leggere qui è frutto di un lavoro completamente autogestito da parte di alcuni detenuti all’interno del carcere di Opera di coinvolgimento e di raccolta di scritti e poesie.
A volte gli autori si firmeranno altre volte no. Ma questo conta relativamente, quello che conta è che delle parole scritte in una prigione avranno una finestra per uscire. E per una volta senza il consueto protocollo di bollettini sulla brutalità delle istituzioni totali o l’assurdità dell’idea che seppellire vivi degli esseri umani serva a redimerli dalle loro colpe.
No, questa volta leggeremo le parole per come arrivano, senza un tema preciso. E per questo ancora più significative perchè parleranno senza filtri. Secondo i codici del linguaggio poetico o del racconto.
Sarà un piccolo spazio che ritaglieremo, periodicamente e senza scadenze fisse, all’interno della vita quotidiana di Milanoinmovimento.
Perchè anche questo per noi è movimento: donne e uomini che non si arrendono all’abbruttimento del carcere e cercano la libertà attraverso la parola scritta e la poesia.
Emozioni esplosive
24 gennaio 1939, Monaco di Baviera, ore 6 del mattino.
Stamattina presto sono venuti a prelevarci.
Ci hanno svegliato dei suoni secchi, forti e continui. Non erano rumori prodotti dal bussare gentile di una mano sul chiaro legno della nostra porta di casa, ma pesanti scarpate che echeggiavano il suono metallico della punta di ferro dei nostri ospiti inattesi.
Ci hanno svegliato di soprassalto, era ancora buio fuori.
Papà è andato ad aprire ancora insonnolito, inforcando i suoi spessi occhiali dalla montatura malandata per cercare di rendere più nitide quelle ombre malvagie che si stagliavano sull’uscio di casa infangando il nostro bel zerbino tirolese.
Sara ha iniziato a strillare nella sua culla, disturbata dal trambusto.
Subito degli uomini alti, impettiti nelle loro divise nere, si sono sparpagliati per casa comportandosi come beffardi padroni. Ci hanno urlato che dovevamo essere trasferiti in un campo di lavoro fuori Monaco. Ma si capiva che stavano nascondendoci qualcosa.
Ci hanno detto di non preoccuparci, che questa era solamente una misura temporanea.
Ci hanno intimato di portare solo lo stretto indispensabile perchè nel luogo dove eravamo diretti avremmo trovato tutte le comodità di cui avevamo bisogno.
A mamma e papà sarebbe stato trovato un lavoro adeguato per sostentarsi per il breve tempo nel quale saremmo stati lontano da casa, mentre noi bambini avremmo potuto continuare a frequentare la scuola regolarmente, con nuovi compagni e nuovi maestri.
Tutti i giorni avremmo potuto accedere alla fresca piscina del campo di lavoro e ci sarebbero stati serviti a merenda pasticcini deliziosi e succhi di frutta di ogni tipo.
Papà e mamma si sono scambiati un’occhiata che non faceva presagire nulla di buono, ma l’hanno subito repressa, forse perchè si sono accorti che li stavo fissando.
Notai subito come l’atteggiamento gentile e pacato delle guardie, unito all’idilliaca immagine che ci stavano presentando, mal si accordasse con il secco e sinistro suono dei tacchi che riecheggiava nei corridoi della nostra bella abitazione, proprio davanti a Marienplatz, insudiciandola tutta.
La mamma mi veste a puntino, con l’abito buono, quello con cui il sabato vado in sinagoga.
Sara viene agghindata con mille premure. E’ imbacuccata come una piccola eschimese, con un grazioso cappellino stile tibetano che le avvolge il capo. Le nere treccine le cadono ordinatamente dietro le spalle su un vezzoso maglione colore del cielo.
Papà sfoggia un completo grigio un po’ smunto, consumato dal logorio degli anni.
Papà è orologiaio. Passa quasi tutto il giorno nel retrobottega del suo negozio a riparare cipolle e pendole. Non gli è mai interessato molto presentarsi in modo impeccabile, lui bada più alla sostanza che alla forma.
Mamma invece è elegante nel suo tailleur caffè, con un sottile filo di perle come unico riflesso della sua preziosa e umile anima.
Papà chiede a un soldato se può portare con se’ la sua preziosissima valigia degli arnesi, indispensabile per l’esercizio della sua professione.
Un graduato, forse un ufficiale, gli dice di non preoccuparsi, nel campo c’è un laboratorio completamente attrezzato, non gli mancherà nulla, vi sono già altri suoi colleghi che hanno provveduto ad allestire il locale con tutto ciò che è necessario per lo svolgimento della sua attività.
La sua voce è ferma, sicura di ciò che sta dicendo. Nessuno potrebbe dubitare della veridicità dei fatti che sta esponendo.
Il suo sguardo però è sfuggente e mal si abbina alla profonda sicurezza emessa dalla cavernosa tonalità da baritono della sua intonazionie.
Mamma chiede al medesimo ufficiale quante valigie possiamo portare per persona.
Nello sguardo del capitano, altero come un colonnello, traspare insofferenza sotto il berretto nero con lo stemma dell’aquila dorata per le futili domande che gli vengono rivolte ogni volta da questi “surrogati” di esseri umani che pensano di avere gli stessi diritti di qualunque cittadino onesto.
Con una contrita smorfia di malcelato disprezzo, l’ufficiale delle SS spiega alla signora Anna, con il tono paternalistico che userebbe con il proprio figlio di quattro anni, che non c’è bisogno che porti nulla con sé: nel campo di lavoro dove sono destinati vi sono infatti numerosi negozi dove potrà provvedere agli acquisti di tutti i generi di prima e seconda necessità di cui avrà bisogno, pertanto che si limiti a recare con sé i beni essenziali per il breve viaggio che li condurrà verso Dachau.
Sul viso della mamma si dipinge un’espressione incredula e noto che comincia a giocherellare con una ciocca di capelli ribelli sfuggiti al cerchietto nero, invisibile tra i corvini flutti della sua chioma.
Corro in camera mia con la scusa di cambiare le scarpe, apro il secondo cassetto del mobile dei vestiti e prendo un costume da bagno, il mio preferito: è azzurro con le righine gialle e delle paperelle cucite a mano sui lati.
Ci saranno anche dei negozi nel campo ma appena arrivo voglio fare un bel tuffo in piscina.
Sento un misto di emozioni che si alternano dentro me. Sono eccitato per il cambiamento, dispiaciuto per il fatto di perdere i miei compagni di scuola però felice di andare ad abitare in un campo, dove forse potrò stare più tempo con papà e mamma dato che qui a Monaco sono sempre impegnati.
Scendiamo in strada in gruppo.
Due biondi soldati aprono e chiudono la fila. Nei loro gesti non vi è gentilezza ma nemmeno impazienza, sembrano automi. E’ come se stessero adempiendo ad una fastidiosa routine, un gesto già ripetuto mille volte, una seccatura necessaria.
Un grosso camion militare per il trasporto delle truppe ci attende col motore acceso.
Fa freddo.
I fiocchi di neve caduti l’altra sera hanno attecchito a terra per il gelo e tutt’intorno a noi è candido e bianco.
I soldati ci fanno cenno di salire sul retro del camion.
La parte posteriore è già mezza piena.
Facce stralunate ci osservano mentre si stringono per farci un po’ di spazio e così darci la possibilità dia stare tutti vicini.
Appena ci siamo sistemati, un campanello di quattro guardie si posiziona sul fondo del veicolo mentre il capitano sale davanti, nella cabina di guida.
Il silenzio che regna nel retro del mezzo fa da amplificatore ai funesti pensieri dei suoi abitanti e si scontra con le risate sguaiate e cattive che provengono dall’abitacolo del potente Mercedes.
Dopo numerose soste tutte uguali, effettuate si fronte ad appartamenti simili ai nostri nel centro di Monaco, il camion è stipato come una carro bestiame.
Siamo pigiati l’uno con l’altro.
I bambini più piccoli piangono, anche Sara strilla per un po’ ma poi mamma la culla con una dolce ninna nanna e lei si addormenta tranquilla.
Nessuno nel camion si lamenta dopo ogni ripetuto accesso di passeggeri, i visi però si fanno sempre più tesi e il nervosismo diventa palpabile.
Verso le due del pomeriggio arriviamo alla stazione dei treni e ci viene succintamente comunicato che raggiungeremo la nostra destinazione finale tramite la ferrovia.
Un nutrito numero di soldati ci sta aspettando fuori dalla stazione e ci controlla minuziosamente uno ad uno mentre scendiamo dal camion.
L’atteggiamento dei nostri momentanei accompagnatori è cambiato radicalmente da quando ci hanno raccolti nelle nostre case di rima mattina ancora avvolti nelle coperte del sonno.
Anche tra noi passeggeri i sentimenti sono cambiati.
Vi è un brusio continuo di malcontento e due ragazzi sui trent’anni stanno apertamente discutendo sul fatto che non abbiano proprio voglia di andare in un campo di lavoro e perdersi il periodo invernale di Monaco, città tra le più movimentate e festose in questo periodo dell’anno.
Veniamo scaricati a male parole dal cassone coperto del Mercedes. Chi ha problemi motori viene spinto senza tanti complimenti dai nostri “carcerieri”.
Intanto ha ricominciato a nevicare. Crisalidi di ghiaccio volano tutto intorno a noi.
Una coppia di anziani, cercando di scendere dal camion, cade scivolando bruscamente sul ghiaccio. Vengono aiutati a rialzarsi dai due giovani di prima, che imprecano contro i soldati per i loro modi spicci e per la poca sensibilità nei confronti dei due vecchietti.
Uno dei due riceve un colpo in faccia con il calcio del fucile e crolla a terra. Il ghiaccio sotto il suo naso si sporca di rosso.
Il suo amico cerca di protestare ma viene colpito anche lui al volto.
Il pestaggio dura pochi secondi ma tutti vediamo il tetro spettacolo: donne, bambini, uomini e anziani.
Nessuno dice niente.
I volti però si fanno terrei.
I soldati non ci danno tempo di reagire e iniziano a spintonarci verso il fondo della stazione Sull’ultima banchina, separato dal resto dei binari c’è un treno che ci aspetta.
Anche se siamo ancora distanti notiamo subito che non si tratta di un treno passeggeri.
Le carrozze non sono quelle che ogni giorno ospitano agenti di commercio e pendolari ma quelle attrezzate per trasportare vacche, maiali e altri animali in giro per i macelli della grande Germania.
Subito la comitiva prende coscienza delle bugie che sono state loro dette per mantenerli calmi il più a lungo possibile.
Esplode un moto d’ira tra di noi che viene subito sedato a calci e spintoni dai soldati.
I bambini singhiozzano forte.
Le loro grida si alimentano a vicenda fino a diventare un’insopportabile lamentosa richiesta di aiuto.
Le donne piangono mentre i loro mariti sono bersaglio di numerose percosse durante il tragitto che li accompagna agli sgangherati e nauseabondi vagoni del treno.
Il ragazzo caduto dopo le percosse al volto cerca di allungare il passo e allontanarsi un po’ dalla guardia che gli stà più vicino.
Questa se ne accorge ma fa finta di niente, le sue mani però si stringono al fucile mitragliatore che porta appeso al collo. Il giovane tenta una sortita verso la strada che lateralmente costeggia i binari, ultima via di fuga prima dell’inesorabile salita sul carro merci. Compie forse tre o quattro passi quando una cacofonia ripetuta e assordante viene suonata dal mitra del soldato delle SS che lo stava osservando.
Il corpo del giovane cade in maniera innaturale, come un ramo secco tranciato di netto dal tronco maestro.
Gli strilli si moltiplicano mentre la chiazza rossa si allarga dal corpo senza vita riverso a terra.
Grido forte. Un urlo disperato. Mamma mi mette una mano sugli occhi e mi spinge avanti verso il vagone. Trema tutta, lo sento dalla pressione del suo petto sulla mia schiena.
L’atmosfera è irreale come se il tempo si fosse fermato. Sembra che nessuno respiri, che nessuno parli.
Tra sospiri e lacrime silenziose veniamo stivati nel vano delle bestie.
Papà è incapace di rispondere alle mie numerose domande sul perchè abbiamo dovuto lasciare casa e sui motivi che spingono i nostri cupi aguzzini a trattarci così male. Mi dice di non preoccuparmi. Mi dice che una volta giunti al campo potremo tornare ad avere una vita quasi normale e che presto torneremo a casa nostra.
Intanto prega abbracciato a mia madre che piange sommessamente.
Per fortuna il viaggio non dura molto anche se ci fermiamo quasi ad ogni stazione per accogliere nuovi sventurati, inconsapevoli del proprio viaggio.
Si parla molto sul treno.
I nuovi arrivati si informano sulle modalità di prelevamento che hanno subito coloro che già occupano il treno e che risultano essere pressapoco le medesime per tutti.
Viaggiamo al buio. Non ci sono finestre sui carri bestiame della gloriosa Germania.
Non ci accorgiamo quindi facciamo il nostro ingresso nel campo di lavoro di Dachau. I binari entrano direttamente nel complesso lavorativo situato ad una sessantina di chilometri a nord di Monaco.
Quando si apre il portellone scorrevole del vagone, veniamo accolti dal latrato dei pastori tedeschi e dalle bocche addormentate delle mitragliatrici che ci puntano minacciose. Un grosso edificio grigio con diverse ciminiere fumanti si staglia a qualche metro di distanza dal nostro punto di osservazione. Attorno vi sono seminate pericolanti baracche di legno tutte cintate da filo spinato. Cadono fiocchi di neve grossi come farfalle, mischiati alla polvere nera che fuoriesce dagli alti comignoli della grigia fabbrica.
Si vedono soldati a perdita d’occhio, impossibile contarne gli elmetti: alti, bassi, magri e grassi. Biondi, bruni, semplici e graduati. Sono tutti armati e tutti gridano qualcosa ai passeggeri che stanno scendendo dai diversi convogli di quel treno che odora di morte, bestie e ruggine.
Alla vista di quello spettacolo mamma inizia a piangere. Non più singhiozzi deboli e malcelati ma veri e propri spasmi di disperazione assalgono il suo corpo infreddolito, coperto da una leggera mantella beige.
Papà le prende la mano e dice a tutti noi che dobbiamo stare vicini l’uno all’altro, non dobbiamo farci separare e tutto andrà bene. Mamma si calma un poco, prende in braccio la piccola Sara che guarda tutto con i suoi occhi innocenti da neonata e con la mia mano nella sua salta da gradino che la separa dal suolo sporcato leggermente di bianco. Balzo giù con lei poi scende anche papà.
Non faccio quasi in tempo a toccare terra che sento la mia mano scivolare via dalla sua, spinta da una morsa tenace e ferrea.
Un soldato grida in tedesco che gli uomini devono procedere verso un edificio adiacente alla fabbrica, mentre le donne sono indirizzate verso un altro luogo.
Papà e mamma si guardano sconcertati, chiedono spiegazioni al giovane biondo che con aria assente ha intimato loro di separarsi. I suoi occhi azzurri sono vuoti, non c’è una sola argomentazione con cui mio padre possa convincerlo a farci rimanere insieme. Il soldato ad un certo punto perde la pazienza e, stanco di spiegare a parole un concetto che proprio non entra nella testa di mio padre, gli rifila uno schiaffo, forte e preciso. Poi accenna a colpirlo con li calcio del fucile, fortunatamente senza percuoterlo grazie all’intervento di mia madre che con il capo fa cenno di aver capito.
L’incrocio degli sguardi dei miei genitori è il ricordo più triste che conservo della mia infanzia. Le guance rigate dalle lacrime di mia madre sono l’ultimo ricordo che ho di lei.
I vagiti infreddoliti di mia sorella, nata solo da qualche mese, mi svegliano nelle mie notti più sofferte. Non ho più rivisto nessuna delle due dopo quel maledetto giorno, non conservo nessuna fotografia di loro.
Dopo la separazione ho vissuto qualche mese nel campo di lavoro insieme a mio padre. Ho capito subito che la piscina non c’era e neanche i pasticcini e le bibite.
Una mattina mio padre non è più tornato dal lavoro.
Nessuno si prese a briga di spiegarmi cosa gli fosse successo.
Lo seppi dopo.
Tutti i giorni, di sera, qualcuno non tornava alla baracca.
I soldati dicevano che erano stati trasferiti in altri campi di lavoro..
24 gennaio 1982. Gerusalemme Est, ore 5,30 del mattino
ieri mattina ci ha svegliato il rombo degli elicotteri. Era ancora buio fuori ma i fari dei mezzi d’aria e di terra illuminavano a giorno la periferia di Gerusalemme dove vivo con i miei genitori. Dei militari vestiti di verde hanno buttato giù la porta a calci e sono entrati con le armi spianate urlandoci a gran voce di uscire dall’abitato immediatamente perchè le ruspe lo avrebbero raso al suolo nell’arco di cinque minuti.
Mio padre, Mohammad, ha chiesto il motivo di questo esproprio. Gli hanno spaccato il naso con il calcio di un mitragliatore Uzi da 9mm.
Un colonnello dalla pelle olivastra con la stella di David bianca e azzurra cucita sul bavero ci ha ordinato di riunirci nel piazzale antistante la casa dove saremmo stati prelevati con altri cittadini palestinesi e portati in un luogo di lavoro non meglio precisato, un campo profughi dove saremmo stati benissimo…
27 gennaio 2015. 70esimo anniversario della Shoah: per non dimenticare che la violenza genera sempre violenza.
A. B.
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