Sbarcati ad Expo. Camouflage vs Occupy?

noi stazDa alcune settimane il flusso era lentamente ripreso.
Un giorno dieci, un altro due, un altro ancora nessuno e quello dopo altri tre, quattro… Piccoli numeri che non hanno fatto notizia e sono stati assorbiti abbastanza facilmente dal sistema d’accoglienza meneghino. Che, sarà scomodo da sentire per i più intransigenti, non è assolutamente perfetto ne sufficiente ma è comunque molto di più di quanto in altri luoghi s’è messo in campo.
Quasi tutti eritrei, alcuni somali, pochissimi da Etiopia, Sudan, Ciad…
Come già in passato, quasi tutti con un viaggio alle spalle che nella migliore delle ipotesi è durato settimane e costato migliaia di euro. Non pochi in realtà in ballo da mesi, attraverso debiti contratti a più riprese, violenze, stenti, fame.
Mille storie diverse e uguali tra loro e una costante “informazione” comune, ripetuta da tutti con precisione:”Stanno arrivando anche gli altri. Siamo migliaia, nei porti, in Libia. Appena il mare si mette bene arrivano tutti.”
Cosa significhi “il mare si mette bene” l’abbiamo visto. Sufficientemente bene per decidere di partire, di rischiare di morire per tutti, di morire per tanti.
Il concetto di “bene” mai così relativo, mai così vicino alla materialità della morte e mai così dipendente dall’impellenza o meno del bisogno di andarsene, partire, migrare.

Fosse per loro, in realtà, sarebbero “in transito”. Destinazione, molto spesso, la Germania. E ancora più su, l’estremo nord europa dove spesso hanno parenti (e dove un sistema d’accoglienza sicuramente più strutturato e capace riesce sovente ad assicurare quei diritti minimi che, anche se non lo sanno, sarebbero loro garantiti).
Ma la vita migrante è una roulette bastarda che fa uscire numeri a caso e per qualcuno vuol dire morte, per altri Corelli, per altri chissà.

Ai Bastioni di Porta Venezia, ancora una volta, ad essere la spina dorsale dell’accoglienza ambrosiana c’è un pezzo di città che non scrive commenti di giubilo sui social network, non invoca le ruspe, non auspica i bombardamenti dei barconi. Cittadini autorganizzati (ma, si badi bene, sovente ben poco “militant”, per fortuna!), una spruzzatina di privato sociale degno, di associazionismo consapevole, qualche scampolo di professionismo onlus che vuole e riesce ad esserci nonostante la rigidità delle strutture, dei progetti, delle linee guida d’intervento programmate. Che, come spesso accade, poco hanno a che vedere con la materialità del reale.

Domani è un’altro giorno, chi vivrà vedrà, e molti tra loro, già solo per il fatto di avere ancora questa possibilità, ringraziano. Non si sa chi, ma lo fanno.

Intanto però mancano esattamente dieci giorni all’inaugurazione di Expo. Con il bando di gara per il “camouflage” quanti posti letto in più si potevano allestire? Con i costi del chiacchieratissimo “albero della vita” quante strutture permanenti destinate all’accoglienza si potevano attivare? Fate voi i conti, se vi va. Non ha molto senso, vero? Irreale, certo, direte.

Allora, se si vuole viaggiare con la fantasia, c’è un terreno molto più concreto su cui provare a farlo. Proviamo.

Partiamo da un presupposto: tra dieci giorni “la questione” non sarà risolta. Gli arrivi prossimamente continueranno e le strutture d’accoglienza sono già al collasso ora. Un centinaio abbondante di capi di Stato in giro per Milano e qualche centinaio di migranti (come minimo) accampati all’aperto a poche centinaia di metri gli uni dagli altri? Potrebbe essere, per carità. Ma è più facile pensare che il “camouflage” sia pratica considerata valida anche in questo caso. E potrebbe avvenire, essenzialmente in due modi.

Può darsi che l’emergenza – l’emergenza Expo, badate bene, non certo l’emergenza umanitaria! – faccia miracolosamente saltar fuori in fretta e furia quei soldi che solitamente si dice non ci siano. E allora vai di tende, brande, protezione civile ed esercito della salvezza, e in qualche area improvvisata andrà di nuovo in scena uno degli spettacoli di giro che, occasionalmente e soprattutto temporaneamente, nel nostro paese va tanto di moda…quando l’emergenza diventa spettacolo (e speculazione) i professionisti italioti sono sempre assai brillanti, del resto. A termine, ovviamente. Che qui non si tratta di risolvere nulla, è solo posticipare, nascondere, mimetizzare. Oppure c’è la versione più “hard-core”: dopo i barconi, si riparte! Treni, pullman, se necessario anche qualche aereo, l’importante è spazzare da Milano questa presenza deturpante l’immagine patinata nel tempo di Expo. Altri luoghi si smazzeranno la rogna, che qui prossimamente c’è altro da fare.
Ovviamente, in entrambi i casi, le Forze dell’Ordine sono disponibili a dare il loro sempre gentile ed amorevole contributo.

Oppure…oppure c’è una possibilità. Diversa e potenzialmente molto concreta. Non perchè sia all’ordine del giorno, per carità. Nessuno ci sta lavorando sopra, nessuno ne parla o forse neanche l’ipotizza. Ma, per certi versi, potrebbe essere forse la cosa migliore da fare e non solo per gli uomini e le donne arrivati e in arrivo. Paradossalmente, potrebbe per una volta “mettere tutti d’accordo”. Certo, ci vorrebbe un po d’intelligenza diffusa, cosa che manca in diversi ambienti da queste parti, ma come si dice? “mai dire mai”!

Diciamo che l’incontro tra autorganizzazione dei solidali e l’impellente drammaticità dei bisogni materiali dei migranti potrebbe far accadere utilmente anche quì ciò che in altri luoghi è già avvenuto…che ne dite di un bell’edificio vuoto, strutturalmente solido, in cui sperimentare in autonomia cosa significa dare alcune primarie, basilari e fondamentali risposte alle necessità di centinaia di persone? Sono sicuro che scandalizzerebbe i professionisti dell’accoglienza, sarebbe definito impossibile da i più estremisti tra i solidali (sulla pelle degli altri) e sarebbe visto di buon occhio dai più intelligenti (e furbi) dei soggetti istituzionali. Un buon motivo (in più) per render questa folle ipotesi interessante.

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