May Day: dal 2001 ad oggi..
Il Primo Maggio 2001 si svolgeva la prima Mayday Parade.
Era stata preceduta da una serie di azioni nei grandi centri commerciali individuati come alcune delle nuove cattedrali della precarietà.
“Portare il centro sociale dentro il centro commerciale” diceva qualcuno. Altri, più affini alla tradizione marxista, affermavano: “Un tempo c’erano le fabbriche. Ora, dove sorgevano le fabbriche, nascono come funghi mega-centri commerciali e call-center. Lì dobbiamo intervenire politicamente”.
Un’azione al centro commerciale Metropoli di Novate era stata coronata dal successo mediatico, ma anche da una buona mezz’ora di mazzate (più prese che date ad essere sinceri) coi giganteschi guardioni che garantivano il tranquillo svolgimento del rito della nuova religione del consumo.
Quel Primo Maggio 2001, messe sul chi vive da un manifesto col faccione sorridente di Yuri Gagarin, alcune migliaia di persone sotto un cielo grigio, si erano presentate in Piazza XXIV Maggio per sfilare fino al Parco Sempione. Il corteo dei sindacati confederali della mattina sembrava a molti qualcosa da superare. Un rito sempre più stanco e meno partecipato e sempre più ancorato ad una struttura del mondo del lavoro e ad un modello produttivo che appartenevano, e appartengono sempre di più ormai, al secolo scorso.
Quella prima Mayday fu un discreto successo che coronò l’intuizione di Chainworkes, CUB e Deposito Bulk. Il famigerato Pacchetto Treu sul lavoro del Primo Governo Prodi aveva dato il via al dilagare della precarietà. Altre riforme sarebbero seguite, una peggiore dell’altra.
Si veniva dall’esplosione della new-economy e dall’ottimismo della terza via di Anthony Giddens e Tony Blair (degno erede della Thatcher).
Tutti cercavano di convincerci che flessibile era bello, era sinonimo di libertà, e che la globalizzazione avrebbe arricchito non solo i paesi ricchi, ma, soprattutto,avrebbe diffuso benessere al livello planetario, liberando il cosiddetto “terzo mondo” dall’estrema povertà e, quindi, dalla tirannia (la guerra globale era intanto cominciata…).
Molti ci credevano.
Molti invece intravedevano quello che poi diventò una realtà inconfutabile: la globalizzazione si sarebbe tradotta in sfruttamento globale dei territori e dei lavoratori con un appiattimento verso
il basso di tutti i diritti conquistati da decenni di lotte, conseguenza inesorabile della competitività su scala planetaria. Una lettura critica e diametralmente opposta da cui nacque il movimento no-global, già protagonista nel ’99 di una battaglia nella strade di Seattle in contemporanea allo svolgimento del vertice WTO. Una gestione dell’ordine pubblico che mostrò l’affermazione di un nuovo modello di governante mondiale e di repressione dei conflitti sociali. D’altronde Genova
era alle porte.
Intanto la Mayday cresceva. Ed attorno a lei tante azioni nei confronti delle grandi catene commerciali. Nel 2004 si decideva che diversi spezzoni sarebbero partiti da differenti luoghi della città attraversandola e praticando diversi obiettivi (agenzie interinali, immobiliari, grandi catene…) per poi riunirsi in Piazza XXIV Maggio.
Fu un successo, ovviamente sanzionato da decine di denunce.
A metà anni Duemila i numeri della Mayday continuavano a crescere vivendo, però, parallelamente una difficoltà di contenuto politico.
La meta finale diventava il Castello Sforzesco. Le decine di migliaia di partecipanti (il tetto massimo è sato raggiunto nel 2010 con migliaia di persone in strada) investivano la Parade di tutte le contraddizioni che vivono i lavoratori precari al giorno d’oggi, tra cui, perché negarlo,
il consumo di sostanze.
Da queste considerazioni e dall’esplodere dirompente della crisi finanziaria e della recessione mondiale nell’Autunno del 2008, si svilupparono le riflessioni che portarono ad una nuova,
significativa, svolta del percorso politico della Mayday.
Nel 2011 si decideva così di ridurre i carri e dare più spazio alle azioni in giro per la città per riportare i discorsi politici al centro della giornata.
Da lì un inevitabile contrazione della partecipazione, ma un rilancio del senso politico che in questi due anni ha tracciato un nuovo orizzonte. Un percorso che si snoda nelle contraddizioni della
Grande Crisi, che rende eloquenti le conseguenze dell’affermazione di un
nuovo paradigma di accumulazione, quella finanziaria, e di governo,
attraverso il debito, condannando intere generazioni, non solo quelle giovani ormai, a povertà e precarietà. La realtà ha, purtroppo, superato le previsioni profetiche delle prime Mayday.
Ed è da questa constatazione che la Mayday2013 ha tracciato il percorso che culminerà il primo maggio 2015, giorno di inaugurazione di Expo2015, la grande truffa sul tessuto metropolitano milanese. L’EXPO del 2015 è infatti sempre più vicino e rappresenta un vero e proprio paradigma
di gestione della metropoli e della crisi. Mentre misure di austerity avvitano i paesi dell’Eurozona in una spirale recessiva e sono responsabili di un impoverimento sociale sempre più diffuso e
capillare, i miliardi per le grandi opere come EXPO2015 (ma come anche il
TAV in Val di Susa, il ponte sullo stretto, la TEM..) si trovano sempre. Opporsi all’EXPO vuol dire quindi opporsi all’ennesimo drenaggio di ricchezza dal basso verso l’alto, vuol dire opporsi ai modelli di governance delle Grandi Opere e delle emergenze (vedi il terremoto dell’Aquila), vuol dire mettere in discussione questo modello di sviluppo fondato su speculazione e devastazione dei territori. Vuol dire uscire realmente da questa crisi strutturale. Ecco perché l’altro
asse tematico della Mayday2013 è stato il Reddito. Rivendicare un reddito di
base incondizionato vuol dire infatti mettere al centro le nostre vite, i nostri desideri, i nostri bisogni, la nostra libertà. Vuol dire sfuggire dal ricatto della precarietà e autodeterminare le nostre
esistenze. La potenza dei temi cardine della Mayday è evidente, soprattutto dati
i tempi di crisi e gli effetti devastanti che quest’ultima sta provocando sugli strati sociali più bassi. La scommessa è concretizzare, in questi due anni, questa potenza, declinarla nelle lotte esistenti
e contaminarsi con esse. La Milano dell’austerity ha visto decine di lotte, dislocate nella metropoli e nei territori circostanti. Dalle mobilitazione studentesche dell’Onda e del 2010 alla lotta
degli operai della Innse, a quella dei lavoratori della logistica, da quella della Jabil a quella dei lavoratori del San Raffaele passando per decine di altre vertenze con i lavoratori migranti spesso e volentieri primi protagonisti.
L’unico modo per vincere questa scommessa è cercare di costruire un percorso ampio ed articolato che sappia essere ricompositivo attorno al tema del Reddito e dell’opposizione all’Expo.
Non sarà immediato, ma è una responsabilità di cui devono farsi carico tutte le realtà che hanno costruito la Mayday quest’anno per rilanciare, ancora una volta, questa giornata.
Una Mayday2014 che deve ricominciare da dove l’abbiamo lasciata, dal nuovo Centro Direzionale di Milano. 14 grattacieli in tutto (compresi i vecchi Pirelli, Breda e Galfa occupato un anno fa da Macao), una concentrazione di grandi nomi dell’economia e della finanza.
Tutto il potere che conta a Milano, in Italia, in Europa, nel Mondo.
Ripartire da lì, ripartire dal cuore della bestia.
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La May Day è nata dopo una serie di manifestazioni del primo maggio finite in contestazioni ai sindacati confederali o di risse tra sigle. Tra queste la più importante è stata quella successiva all’abolizione della scala mobile.
La May Day ha semplicemente regalato un evento promozionale ai centri sociali ed un corteo tranquillo ai confederali proprio in un periodo in cui i sindacati di base incominciavano a creare lotte in contesti produttivi segnati dal parasubordinato.
Aver sterilizzato un luogo di incontro e di confronto tra lavoratori per darlo in pasto a soggetti ( i centri sociali) che del lavoro nero, dell’evasione fiscale e contributiva, del “volontariato” e dell’ostilità verso ogni procedura di sicurezza fanno un punto di forza ha progressivamente indebolito il sindacalismo di base.
E’ una questione di credibilità: difendere gli interessi dei lavoratori affidandone la rappresentazione a bottegai abusivi è perlomeno ridicolo, affidare le lotte alla precarietà ed alla disoccupazione ad ambienti giovanilistici aiuta a fare disinformazione.
Oggi il sindacalismo di base paga la scelta di aver voluto scimmiottare il concertone di Roma e di aver organizzato eventi finti come occupy piazza affari con una marginalità sempre più evidente.
Guarda che ti sbagli di grosso. La May Day Parade è nata spontaneamente come festa e come riappropriazione del 1 maggio, mai in contrapposizione a nessuno. Senza la Mayday la precarietà non sarebbe oggi sulla bocca di tutti e i precari non sarebbero l’unico soggetto sociale in grado, in un futuro speriamo non coì lontano, di cambiare rotta alla nave che sta andando a sbattere. Ti prego quantomeno di portare rispetto a chi ha speso ore della sua vita per organizzarla, mentre tutti mettevano il bastone in mezzo alle ruote. Rifondazione che nel 2001 era viva e vegeta e veniva a darci lezioni di tattica (si vede dove son finiti), i sindacati che non riescono nemmeno più a far chiudere un negozio il 1 maggio a Milano (immaginati nel resto d’Italia), e tutta una fila di intellettualoidi, giornalisti e politici della sinistra con la colf, disturbati dalla techno, dalle pisciate sui muri e dalla parade. La mayday è di tutti, la mayday non è di nessuno.