Perchè
La settimana scorsa sono andato a San Vittore. Era una visita organizzata da una casa editrice su richiesta dell’associazione che si occupa del sostegno ai detenuti. Ho parlato di libri e televisione nella biblioteca del raggio del tossicodipendenti, ho soprattutto ascoltato le loro storie. Come sono finiti dentro per aver avuto in tasca fumo o coca, la difficoltà della convivenza in celle sovraffollate, il pensiero rivolto al fuori, a quando sarebbero usciti. E forse rientrati. Ho attraversato i cancelli, passato l’Ottagono ove si aprono tutti i corridoi, e come sempre sono rimasto impressionato dalla struttura antica, quasi medievale, dal suono delle chiavi. Alcuni raggi sono chiusi perché inagibili, gli altri sono stipati molto oltre la loro possibilità di accoglienza.
In un laboratorio ho parlato con un detenuto sulla sessantina. E’ dentro da trent’anni. Ha detto che quello che faceva prima era barbaro, prendeva quello che voleva senza rispetto per niente e nessuno. In questi anni, invece, ha trovato una nuova pace. Sta cercando di organizzare lavoro per i detenuti e per quelli che, quando usciranno, si troveranno in mezzo a una strada. Ma è dura. Non ci sono soldi. Non c’è niente. Ha una gamba che muove a fatica, dalla postura è chiaro che si è rotto e si è riaggiustato male in molti punti del corpo. E’ un reduce. Un sopravvissuto.
Sono uscito e come sempre sono stato male. L’ho anche scritto. La cosa peggiore di visitare la gente in carcere è che quando esci non puoi portare via nessuno.
Ho incontrato da poco un mio amico. E’ un agente di polizia penitenziaria, ed è una brava persona. Una volta pensavo che il lavoro ti definisse, ti mettesse subito dalla parte giusta. Poi ho scoperto che esistono rivoluzionari figli di puttana e assassini brave persone, ho scoperto che si può condividere qualcosa anche con quelli che sembrano su un altro pianeta. Sono contento che faccia il mestiere che fa, perché meglio lui che un altro. Io non sarei in grado. Io non vorrei che esistesse quel lavoro.
Ogni volta che lo incontro mi aggiorna su quanti gli sono morti in cella. Suicidio, malattia. Mi ha raccontato che dopo mesi di insistenze da parte dell’amministrazione del carcere dove lavora è riuscito a far uscire un detenuto malato terminale. Aveva pochi giorni di vita, forse è già morto.
Quando faccio queste visite, quando parlo con questa gente vedo il carcere per quello che è. Delle pattumiere dove viene gettato quello che non vogliamo vedere, quello che per noi è rifiuto, insetto, parassita, e lasciamo che marcisca insieme a quelli che mettiamo lì con una divisa addosso per impedire che il liquame esploda. Le vorremmo lontane queste pattumiere, sulla Luna. Perché vederle ci spaventa. Perché sappiamo che tra noi e quelli che ci stanno dentro esiste solo una sottile linea. Bastava nascere nel quartiere sbagliato, perdere la pazienza una volta di troppo, alzare troppo le mani in un corteo, drogarsi troppo, sbagliare e saremmo noi al loro posto. So che esistono i malvagi, so che esistono persone che sono insanabili e guasti. L’ho imparato a mie spese. Non c’è solo la circostanza e l’educazione, vi è anche una frattura che a volte si apre, una malattia dell’anima per cui si fanno cose schifose e si continuano a fare cose schifose. Ma gli altri, noi sappiamo che potrebbero non esistere.
Noi sappiamo che sono le condizioni che creano ciò che viene chiamato crimine. Noi sappiamo che è la miseria e l’ignoranza che spinge a prendere una pistola in mano, sappiamo che è la mancanza di speranza e di futuro. Sappiamo che vi sono leggi tremende, che di per se stesse creano il carcere, come quelle sulla droga, sull’immigrazione.
Ma questo è un discorso complesso, che non mi va di fare, sono troppo ignorante, troppo incazzato. Voglio solo restituire il senso di sconfitta che provo quando vedo un carcere. Una sconfitta umana e politica. E culturale.
Ma per questa sensazione che provo, per questo senso di vuoto, ho delle reazioni immediate e istintive quando qualcosa che riguarda il carcere viene portato alla pubblica attenzione. Ed è per questo motivo che mi è salito il sangue agli occhi sul caso Cancellieri. Perché ho sentito nelle sue parole, prima ancora che il favoritismo e l’intervento ad personam (di cui non mi fotte al momento), il baratro di classe. L’umanità dovuta per la figlia della buona borghesia che rischia di soffrire, al contrario della prassi da rispettare per quelli che ci entrano con le unghie sporche. Ho sentito la preoccupazione per chi è il tuo vicino di casa ai Parioli o nella cerchia dei Navigli perché non si faccia male, in contrasto con il “faremo chiarezza” che è il meglio che possono ottenere i poveri cristi che dal carcere escono con i piedi avanti (quando va bene, quando non si dice che se lo sono meritati). E il sangue agli occhi mi è salito anche per quelli che ora stanno tacendo, partitucoli come Sel che mi hanno coinvolto nelle loro cazzate in passato, e che ora non riescono nemmeno a chiedere le dimissioni, che si muovono cauti nel guado della politica, senza l’istinto giusto, di pancia, che ti deve far sentire subito come un insulto personale l’ipocrisia sulla galera.
La galera è un grande spartiacque, non ci sono vie di mezzo, fratelli. O sei contro e lavori per chiuderle – culturalmente, non certo col piccone – e non perdoni chi ci gioca per interesse o potere, chi sbaglia sulla pelle altrui, o stai dall’altra parte. Con chi le vuole ancora più grevi, con chi se ne frega, con chi pensa che i problemi siano altrove.
Con chi chiude il coperchio della pattumiera e spera che presto arrivino gli spazzini a portarla via.