La narrazione mancante: dov’è finita la produzione?
Penso che non si possa affrontare questo discorso senza una premessa forse scontata ma che non possiamo perdere di vista: siamo in un paese in crisi profonda il cui metro si misura anche dalla sua produzione culturale. Basta guardarci intorno per capire che la devastazione prodotta dall’equazione 25 anni di berlusconismo + disfacimento della sinistra + crisi economica + capitalismo finanziario è indubbiamente evidente anche nel dato culturale. Accendete la tv, leggete un qualsiasi giornale, scorrete la classifica delle vendite di libri, cd, botteghini cinematografici e teatrali. Scorrete ora mentalmente i primi 5 intellettuali italiani di questo periodo che vengono proposti dal mainstrem. Ora che avete questo quadro moltiplicatelo per il totale smantellamento del sistema formativo e scolastico, l’influenza dei grandi brand e delle grandi fondazioni nei finanziamenti al sistema culturale. Il risultato di questa equazione complessa a cui sicuramente ho dimenticato di aggiungere dei fattori è l’immagine di un paese arretrato e decadente, dove con tutta la nostra buona volontà è veramente difficile muoversi e costruire alternativa.
La crisi e la cultura indipendente – Ancora non sto parlando di centri sociali.
Se il mainstream è veramente in coma, la cultura underground o indipendente non è che si senta tanto bene. Negli ultimi anni abbiamo visto la crisi di alcune esperienze fondamentali per ricerca e per il ragionamento attorno al DIY. Prendo degli esempi a mio parere significativi, senza voler essere esaustiva: la fine del MEI di Faenza per quanto riguarda la scena musicale e la messa in discussione del Festival dei Teatri di Santarcangelo di Romagna. L’una finita schiacciata dall’ingresso nelle logiche del mercato musicale, in una certa pochezza di discorso politico e nel fare lobbing tra operatori di un certo calibro, l’altra nel trovarsi smarrita nella sua stessa istituzionalizzazione.
Accanto a questi due esempi, ne faccio un terzo ed è quello dell’operazione mediatica, sicuramente mossa da intenti positivi, che è stata Chi ha paura del buio?, il grande evento promosso da XL e Manuel Agnelli. L’operazione sicuramente toccava degli aspetti interessanti riguardo la crisi culturale e lavorativa del settore dell’arte a 360 gradi, ma che ha avuto a mio avviso dei grossi limiti, prima nel cercare di autorappresentare la cultura indipendente tout court e dall’altra di non aver fornito nessuna reale alternativa al sistema vigente fatto di lobby piccole e grandi, di sfruttamento del lavoro artistico, di limitatezza delle risorse, di inadeguatezza del sistema legislativo, di prospettive lungimiranti. Non abbiamo certo risolto i nostri problemi andando a un paio di mega eventi e nell’approvazione di un decreto legge che favorisce gli eventi con meno di 200 partecipanti. Apprezziamo lo sforzo e ne siamo contenti, ma credo che si debba fare di più.
In questo scenario ci sono fortunatamente anche molti esempi positivi che nascono proprio dentro le forme di autorganizzazione e cooperazione dal basso. Credo che ancora si riesca a fare cultura in questo paese e a farla con qualità, con prospettive in avanti e con una certa dose di spregiudicatezza, in forma libera e liberata. Proprio qui colloco anche le nostre esperienze di centri sociali al passo con i tempi, dei teatri occupati ma anche nelle molteplici forme dell’associazionismo sparse in tutta Italia. Ho visto e vedo realtà che con passione e fatica cercano strade percorribili in questo scenario complesso, che provano a tenere insieme produzione, economie, know out, competenze senza paura di sporcarsi le mani con grandi contraddizioni e cercando di mettersi continuamente in gioco.
Dov’è finita la produzione?
E’ chiaro che c’è stato un cambiamento radicale nel rapporto tra centri sociali e produzione culturale. Se prima i nostri luoghi erano fondamentali per produrre – non immagino i 99 Posse senza Officina 99, non immagino Isola Posse All Star senza L’Isola nel Kantiere e così via – ora la produzione è diffusa, dislocata, ibrida, contaminata, è un grande mash up collettivo che avviene dentro e fuori le città, nelle case, dentro la rete, nei bar, nelle strade, nei rapporti tra le persone e ancora nei centri sociali. E’ anche estremamente frammentata e a volte atomizzata.
La sfida dunque è immaginare come possiamo connettere i nostri spazi a questi flussi, per canalizzarli, amplificarli e moltiplicarli, renderli liberi e potenti, cooperanti in modo virtuoso, veramente alternativi e dirompenti. Per farlo dobbiamo saltarci dentro con la spregiudicatezza che ci contraddistingue, non chiudendoci dentro dei recinti di autosufficienza, certamente più sicuri, ma che possono diventare un limite che ci fa diventare spettatori o si limita a raccontare a noi stessi cosa siamo o cosa siamo stati.
Accettare le sfide che ci pone la complessità in cui siamo, immergerci fino in fondo nelle contraddizioni, guardare al nostro passato come una ricchezza impressa nel nostro Dna, ma spingendoci sempre più in là nella ricerca e nella contaminazione con le forme di produzione che avvengono anche al di là di noi e trovare dentro questo magma terreni comuni di rottura e conflittualità. Solo così possiamo riprendere i fili frammentati di una nuova narrazione del comune.
* Nella foto wall di To/let ex Cap di Via Mattei a Bologna.
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