La narrazione mancante e la post-modernità dentro la musica

what-is-post-rock-5-diy2Indagare sui rapporti tra musica e movimenti, e più in generale tra produzione culturale e gli immaginari di rottura e di contrasto all’esistente, è sempre un’operazione complessa ed allo stesso tempo molto stimolante.

Sono convinto che il dibattito sulla “narrazione mancante” tiene banco nel momento opportuno, ossia in una fase in cui le occupazioni (di case, di spazi sociali, di studentati) sono tornate prepotentemente al centro del dibattito politico nazionale. In questo contesto i centri sociali non rappresentano solamente l’elemento riflesso, ma il vero e proprio motore di questo “nuovo corso”.

Detto questo (che però è bene ribadire perché altrimenti si corre il rischio di parlare dei centri sociali solamente nella loro capacità di produrre cultura e contro-cultura tralasciando il fatto che sono oltre trent’anni che ci poniamo soprattutto il problema di come stare realmente dentro i processi reali di cambiamento di questo Paese e non solo) è chiaro che esiste, da tanto tempo, una difficoltà di legare l’azione politica “di movimento” ad immaginari non estemporai che siano realmente potenti e moltitudinari.

Sicuramente la musica è la cartina di tornasole più evidente di questa situazione.

Se si parla di produzione musicale e spazi sociali il pensiero va immediatamente alle Posse, a quella scena che nella prima metà dei ‘90 nasce dentro i luoghi occupati e che è stata pienamente in grado di sfondare il recinto dell’underground portando i nostri contenuti e linguaggi all’interno della dimensione mainstream. Tutto questo, ed è qui che sta il punto di maggior forza di questi artisti, senza subire mai meccanismi di sussunzione: un esempio virtuoso di eccedenza culturale.

Le Posse però, oltra ad essere il simbolo di una straordinaria stagione politica, metabolizzano il flusso positivo di una scena hip hop che oltre-oceano si andava sempre più politicizzando. Public Enemy, Ice Cube, Ice-T, Pharcyde sono stati qualcosa più di una colonna sonora nelle rivolte di Los Angeles del 1992[1]. Più in generale l’hip hop diventa la voce narrante della voglia di riscatto e ribellione da parte dei giovani afro-americani, che per primi subiscono le contraddizioni di una metropoli in piena transizione post-fordista, dove si creano nuovi ghetti, confini e spazi di marginalità.

Tornando in Italia la prima metà degli anni Novanta è stata caratterizzata, oltre che dalle Posse, anche dalla nascita di tante band che animavano il panorama indipendente. Afterhours, Marlene Kuntz, Ustmamò, Disciplinatha e molti altri ridanno nuova linfa al rock “alternativo” italiano, rimasto per diverso tempo senza punti di riferimento dopo il tramonto della new-wave e la crisi del punk. Si tratta di band che, nonostante non provengano direttamente dai centri sociali, si inseriscono pienamente in quel contesto artistico e culturale nato grazie alla spinta innovativa e dirompente degli spazi occupati.

Se tutto questo è vero, è anche vero il fatto che in quello stesso periodo tutto il rock indipendente stava attraversando una vera e propria fase costituente. Le etichette cosiddette ”indie” iniziano a mettere in crisi l’egemonia delle “major”, la digitalizzazione della produzione permette un allargamento enorme della sua fruizione e sonorità come quelle grunge e post-hardcore (grazie in particolare a band come i Nirvana da un lato ed i Fugazi dall’altro) escono dalla nicchia diventando vere e proprie “cult band”.

Tra la fine degli anni Ottanta e gli inizi del decennio successivo la critica musicale inizia ad usare con sempre più insistenza il termine indie-rock: quella che era un’attitudine e prima ancora un modo di produrre dentro la musica diviene un vero e proprio brand culturale, in grado di esprimere desideri, sogni e ribellioni di un’intera generazione.

Una stagione così prolifica sul piano della creatività e dell’immaginario doveva necessariamente produrre dei cambiamenti radicali, in grado di sancire un passaggio definitivo dentro un nuovo paradigma.

Le trasformazioni, si sa, vengono sempre prodotte dal basso ed è negli scantinati di Lousville, cittadina del Kentucky fino ad allora rimasta abbastanza ai margini dei fermenti musicali statunitensi, che vengono suonate le prime note di quella che diventerà una vera e propria rivoluzione musicale. Nel 1989 la Touch and Go licenzia “Tweez”, primo album degli Slint; due anni dopo esce “Spiderland”, sempre a cura della stessa etichetta. Chitarre minimali, voci rarefatte, sonorità aspre e rumorose: non c’è quasi più traccia del rock per come lo avevamo tradizionalmente inteso.

Da Lousville a Chicago, dagli Slint, i Rodan e i June of 44 ai Tortoise, i Gastr del Sol, i Rex. Sembra un effetto domino e nel giro di pochi anni c’è un fantasma che si aggira per l’America: quello del rock.

Il fenomeno attraversa l’Oceano e contagia la Gran Bretagna: Stereolab, Laika, Mogwai, Bark Psychosis. Proprio in riferimento a questi ultimi viene utilizzata per la prima volta la definizione post-rock. E’ Simon Reynolds a coniarne il termine nel marzo del 1994, sulle pagine della rivista inglese “Mojo”, proprio nel descrivere “Hex”, opera prima della band londinese.

Il post-rock si afferma come un meta-genere, nel senso che include all’interno sonorità molto diverse tra loro, ma accomunate da un’attitudine comune: il superamento della forma canzone.

Nel corso degli anni Novanta e per buona parte del decennio successivo il post-rock egemonizza in maniera quasi assoluta il panorama delle musiche indipendenti, diffondendosi a macchia d’olio, oltre che in Usa e Gran Bretagna, anche in Canada, Francia, Germania, Spagna, Italia, Est Europa.

I critici musicali italiani Stefano Isidoro Bianchi ed Eddy Cilia definiscono questo suono destrutturato come “come specchio di una società che ha superato i ritmi e gli stilemi propri del fordismo e della cultura industriale[2]”. In poche parole è la post-modernità che si fa musica, entrandone in tutti i campi: composizione, realizzazione, produzione, fruizione, circolazione.

Se da un lato artistico il post-rock ha determinato una delle stagioni più interessanti di sempre, da un altro punto di vista priva la musica indipendente della capacità di costruire immaginari semplici e condivisi, tipici del rock e del pop.

Da quel momento in avanti infatti non c’è stato più un genere o una scena musicale in grado di narrare il sentire di una generazione (fa eccezione in questo solo il dubstep[3]), non solamente da un punto di vista politico, ma anche semplicemente come dato di costume.

Nel bene e nel male le scene ed i generi musicali si sono frammentati e mescolati, anche sulla spinta di una produzione che, grazie ad un uso moltitudinario delle nuove tecnologie, si è sempre più autonomizzata. Ma si tratta di un’autonomia che molto spesso non assume la forma di comune, ma rimane vincolata ad un ambito individuale

Il “do it yourself” non è più un codice etico, ma è diventato una realtà diffusa, che ha dato sempre più spazio a microscene e microproduzioni. Tutto questo ha messo in crisi non solo le grandi corporation del settore ma anche quel nesso politico tradizionale tra musica e spazi sociali fatto di piccole label e sale di registrazione autogestite.

Per queste ragioni la produzione culturale nei centri sociali è cambiata, è diventata più complessa ed aperta alle diverse spinte artistiche e non si è fermata a contemplare con nostalgia ai periodo delle Posse.

E proprio perché ritengo la nostalgia una passione triste credo che la sfida che ci stiamo ponendo consista nella capacità, da parte dei centri sociali, di tradurre la produzione autonoma musicale in potenza eccedente e cooperante. Ed è forse da questo che può partire una nuova narrazione, che sappia essere non solo “narrazione alternativa”, ma “pratica e narrazione dell’alternativa”.

 


 


[1] Per un approfondimento sul tema si veda: Brian Cross, Hip hop a Losa Angeles. Rap e rivolta sociale, SheKe 2011

[2] Stefano Isidoro Bianchi, Post rock e oltre. Introduzione alle musiche degli anni 2000, Giunti 1999

[3] Antonio Pio Lancellotti, Post millennium tension, Globalproject.info, 2011

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