La difficile cura del paziente nell’era della post-natura
Come ha scritto Norberto Bobbio, “Mentre il progresso tecnico-scientifico non cessa di suscitare la nostra meraviglia e il nostro entusiasmo, continuiamo sul tema del progresso morale a interrogarci esattamente come duemila anni fa”.
Bisogna partire da un presupposto: la relazione tra medico e paziente è un rapporto tra diseguali: sapere-potere del medico, soffrire-patire del paziente e io concordo con Giorgio Cosmacini quando asserisce “Il prerequisito fondamentale del buon curante resta la religio medici, una “religiosità laica” che trasforma “l’aver potere nell’aver cura“.
Con “aver cura” intendo: instaurare un buon dialogo col paziente, informarlo e renderlo partecipe nella scelta delle terapie e rispettarne la dignità seguendo le sue decisioni. A questo proposito l’Ordine dei medici fa riferimento a numerosi testi, tra cui la “Carta della professione medica”, il “Codice di Norimberga” e la “Guida per gli operatori”, fornita dal Ministero della salute, a proposito del quale troviamo specifico riferimento: “Particolare attenzione va dedicata alla conoscenza ed alla valutazione del paziente, dei suoi bisogni, delle sue condizioni e caratteristiche”.
Il dialogo:
Il concetto che si ha del paziente è alla base del modo di curare. Il paziente non è un “caso”, ma un interlocutore umano, la malattia non è solo un fenomeno fisico-chimico ma un fenomeno più complesso bio-psico-sociale, un’alterazione del sistema a più livelli, da quello molecolare e tissutale a quello psicologico e culturale.
Tener conto dell’identità culturale del paziente è ancora più importante oggi in Italia vista l’alta percentuale di migranti di cui è costituita la nostra comunità. Nel film “viaggio a Kandahar” c’è una scena significativa in cui a un medico, viene chiesto di visitare una donna. Sono separati da una coperta scura che pende tra loro come un sipario. Dietro, la donna è coperta dal burka dalla testa ai piedi, i due non si parlano direttamente. Il figlio della donna, un ragazzino di sei o sette anni, fa da intermediario; una situazione del tutto inusuale in un normale ambulatorio in Italia eppure un plausibile bisogno di una persona appartenente a una cultura diversa dalla nostra. Pensando al fatto che in un classico ambulatorio italiano si “ordina” alla paziente di svestirsi senza la minima preoccupazione ci si rende conto di quanto sia indispensabile la valutazione dei diversi bisogni del paziente, fortemente influenzati dalla società da cui questo proviene.
L’informazione e l’autonomia:
Altro prerequisito fondamentale dell’ “aver cura” è l’informazione del paziente, il renderlo consapevole di ciò che sta succedendo al suo corpo, in un rapporto sincero. Attraverso l’informazione del paziente si può arrivare a non farlo sentire come l’ospite dentro il quale si annida la malattia che il medico si occupa di curare, ma sarà il malato stesso il protagonista della battaglia in corso. “Il principio dell’autonomia dei pazienti” e “l’Impegno all’onestà verso i pazienti”, presenti nella Carta della professione medica, tendono a questo risultato quando dicono: “I medici devono rispettare l’autonomia dei pazienti fornendo loro, in completa onestà, le conoscenze necessarie per poter prendere decisioni informate riguardo al trattamento”.
Una delle peggiori mancanze, spesso registrate nella nostra Sanità, è proprio questa e ciò comporta prima di tutto una diminuzione dell’efficacia dei trattamenti e in secondo luogo un deterioramento del rapporto tra medico e paziente che spesso negli ultimi anni ha contribuito ad aumentare il numero delle cause legali intentate nei confronti dei medici. Numerosi articoli di cronaca nell’ultimo anno raccontavano dell’incremento notevole di denunce sporte nei confronti della classe medica in Italia, ma, come spiega Gawande “Il più delle volte la gente si rivolge a un avvocato solo per avere qualcuno che l’aiuti a scoprire cos’è veramente successo”.
La mancanza di dialogo e informazione nel rapporto terapeutico lascia spazio a un approccio soggettivo del medico alla cura. I rischi possono essere che il medico legga nel paziente i suoi vissuti personali e che sostituisca alle reali esigenze del malato quelle del suo “modello” di trattamento o di uno stereotipo di guarigione. L’applicazione dei propri principi etici e morali su un altro uomo coinvolge questioni irrisolte come quella aperta dalla filosofa Roberta De Monticelli “Ma come: sul corpo altrui, su una mente altra dalla tua, che crede in cose diverse da quelle in cui credi tu, eserciti le tue convinzioni morali e spirituali?”.
In diverse situazioni e articoli di cronaca, ascoltiamo e leggiamo di persone malcontente dei trattamenti subiti negli ospedali ma questo non è dovuto ad altro, in molti casi, che all’incoerenza con molti dei principi stessi su cui si basa la professione medica. I validi scopi sociali della medicina troppo spesso sembrano dimenticati o di secondaria importanza ma, seguiti coerentemente migliorerebbero la qualità della vita di molti, non solo pazienti, ma anche medici.
[…] e il tipo di cura che finiscono per ricevere, perchè, come giustamente dicono i medici, anche il rapporto medico-paziente ne risente. Di conseguenza la qualità della cura non fa che peggiorare perchè, anche se non lo […]