L’Ambrogino d’oro ai Carabinieri? Una scelta politica inquietante
C’è qualcosa di preoccupante dietro la scelta di assegnare l’Ambrogino d’Oro al Nucleo Radiomobile dei Carabinieri. Anzi, preoccupante non basta: è grave che il riconoscimento venga attribuito lo stesso anno dell’omicidio di Ramy, mentre sono ancora in corso le indagini che coinvolgono direttamente membri di quel reparto. 365 giorni prima, mezzi di quel nucleo avevano dato il via a un folle inseguimento durato 8 km — e oltre 20 minuti – per le vie di Milano a un motorino. Video raccolti da televisioni testimoniavano come i militari sull’auto cercassero a più riprese di speronare il mezzo e si dicessero dispiaciuti di non riuscirci. Arrivati in viale Ripamonti il contatto ci fu, e Ramy morì nell’impatto. Dopo un anno il rischio non è solo che non ci sia un processo, verità, giustizia. Ma che la narrazione che passa sia quella dell’incidente e dell’innocenza dei carabinieri. Attribuire un’onorificenza proprio ora è un gesto esplicitamente politico, che un comune che si dice progressista non può permettersi di fare.
Quando si prova a ricostruire i fatti, la prima cosa che emerge è che l’inseguimento nasce senza un motivo fondato. Nelle ore immediatamente successive, la prima versione fornita dai Carabinieri sostiene che lo scooter avrebbe forzato un posto di blocco, ma questa ricostruzione viene poi smentita: non c’è stato alcun posto di blocco e non risultano segnalazioni pregresse sul mezzo. Poco dopo compare un’altra giustificazione, secondo cui il motorino avrebbe eseguito manovre pericolose, ma anche questa versione non trova riscontri oggettivi e non spiega l’avvio di un inseguimento ad alta velocità in piena città. A tratti viene suggerito persino un sospetto di furto, ipotesi poi caduta perché lo scooter era regolarmente intestato. Le motivazioni, dunque, cambiano più volte senza mai trovare un appiglio concreto nei protocolli che regolano l’uso delle sirene e delle manovre ad alto rischio. E così resta il dato centrale: nulla, quella sera, giustificava un inseguimento di otto chilometri da parte di due auto del Nucleo Radiomobile, tanto più considerando che nei video si sentono i militari commentare i tentativi di avvicinamento allo scooter come se lo speronamento fosse un’azione auspicata, benché vietata. L’inseguimento termina all’incrocio tra via Ripamonti e via Quaranta, dove avviene il contatto che provoca la caduta dello scooter e la morte di Ramy Elgaml. Nel frattempo la Procura apre diversi filoni d’indagine: uno per omicidio stradale, che riguarda sia il conducente dello scooter sia il carabiniere alla guida di uno dei mezzi; uno per depistaggio, che coinvolge quattro carabinieri accusati di aver ostacolato o alterato la raccolta dei materiali; e un ulteriore fronte sulla gestione dei video, alcuni dei quali risultano cancellati, incompleti o non consegnati integralmente. È un quadro che mostra non solo la gravità dell’episodio, ma anche le sue opacità.
Ma c’è un aspetto ancora più profondo, che va oltre la dinamica tecnica dei fatti. L’inseguimento di quella sera è figlio del razzismo strisciante che attraversa il paese, un razzismo che non ha bisogno di proclami apertamente discriminatori per agire: basta riconoscere chi viene considerato “sospetto” per principio, chi viene fermato più spesso, chi viene passato al setaccio per un motorino, una felpa, un cognome. L’aspetto sospetto diventa il colore della pelle, la lingua, l’abbigliamento. È dentro questo clima che le Forze dell’Ordine operano con una legittimazione politica totale, un sostegno senza se e senza ma che copre ogni intervento e ogni eccesso, anche quando finisce per uccidere. Assegnare l’Ambrogino d’oro al reparto che ha partecipato alla morte di Ramy significa rafforzare questa dinamica, trasformando un caso ancora pieno di ombre in un’occasione di celebrazione. Un premio del genere non è un gesto neutrale: è un segnale che dice alle forze di Polizia che il loro operato, qualunque esso sia, verrà comunque difeso e onorato. È un messaggio che legittima l’abuso come possibile variante dell’ordine pubblico, che sostituisce il controllo con la forza e la sicurezza con la discriminazione. Un premio che, se avesse voluto, l’amministrazione — con il sindaco al vertice — avrebbe potuto bloccare. Ma non è stato fatto.
Nel frattempo la reazione della famiglia di Ramy non si è fatta attendere. Yehia Elgaml, suo padre, ha commentato così la decisione del Comune: «Continua la fiducia nella giustizia, ma non va bene così: non devono fare il regalo degli Ambrogini», riferendosi al riconoscimento conferito al Nucleo Radiomobile. Durante la fiaccolata organizzata la sera dell’anniversario ha dichiarato di essere «arrabbiato» per quel premio, ribadendo che «non dovevano darlo a loro». Ha ricordato il figlio come «una persona speciale» ed espresso il dolore di un anno trascorso chiedendo verità.
E allora la conclusione non può che essere una: le istituzioni di questa città hanno deciso da che parte stare. Davanti alla morte di un ragazzo inseguito senza motivo, davanti alle versioni contraddittorie, alle indagini aperte per omicidio stradale e depistaggio, davanti a una famiglia che chiede verità, Milano sceglie di premiare chi di quella notte è stato protagonista. È una scelta politica, non protocollare. È una scelta che legittima un modo di intendere l’ordine pubblico che non si limita a controllare, ma si sente autorizzato a colpire. Una scelta che dice chiaramente quali vite meritano ascolto e quali no. Ma se le istituzioni provano a chiudere la storia con una medaglia, fuori dai palazzi la storia non è chiusa affatto. Perché Ramy continua a parlare attraverso chi non accetta che la sua morte venga normalizzata. Centinaia di persone hanno manifestato sotto una pioggia battente in sua memoria. Alcuni esponenti della stessa maggioranza erano in piazza, mostrando una distanza anche all’interno dell’amministrazione. Che non ci sia una sola Milano è chiaro, e non c’è neppure un’unica città per chi è alleato a Palazzo Marino. Ben diversa è la città che vorrebbero le persone che vivono le periferie — e non solo. Milano oggi è una città che vuole attrarre chi è ricco ed espellere chi è povero. C’è chi resiste a quest’idea, che l’amministrazione Sala ha accelerato. Ed è per questo che non si può permettere che l’assegnazione dell’Ambrogino d’oro faccia sì che la verità ufficiale sulla morte di Ramy sia quella dell’Arma dei Carabinieri; non si può permettere che un premio cancelli la responsabilità, né accettare che l’abuso si travesta da merito. Continuare a pretendere ciò che l’Ambrogino d’oro prova a seppellire: giustizia, verità, memoria.
Andrea Cegna
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