Giornalismo e ricerca sui diritti umani: istruzioni per l’uso
Quando si fanno interviste (giornalistiche o di ricerca) per scopi sociali o umanitari, come ci si pone nei confronti delle persone a cui si domandano le loro storie personali?
Essere un bravo giornalista o ricercatore preparato può prescindere dal comportamento che si ha nei confronti delle persone delle quali si raccolgono storie e testimonianze?
Abbiamo tradotto per voi un articolo molto interessante dal sito Electronic Intifada (qui l’originale).
Buona lettura.
“Ma vi piace riprendere la nostra miseria? Riprendi pure: va bene, sei come tutti gli altri. Vieni qua nel nostro campo, filmi, poi te ne vai, e noi restiamo qua.”
Di solito rispondevo: “Ma noi siamo qui per testimoniare al mondo le vistre storie.” A volte, con sarcasmo, mi sono sentito dire: “Quanto ti pagano per raccontare al mondo le nostre storie?”
Per tutto il periodo in cui ho lavorato come fixer per i giornalisti internazionali non ho mai capito perchè la gente guardasse con scetticismo il nostro lavoro “umanitario”, dai marciapiedi dei campi. All’inizio di quest’anno sono arrivato però a comprendere il perchè di questo scetticisimo da parte dei rifugiati palestinesi in Libano.
Era un giorno nuvoloso, nubi sparse sopra Sabra, un quartiere povero attaccato allo stadio di Beirut, proprio davanti al campo profughi di Shatila.
Camminavamo nei vicoli stretti di Sabra, guidati da Adbullah, un giovane palestinese proveniente dalla Siria, che stava aiutando i suoi concittadini scappati dalla guerra e alla ricerca di sicurezza in Libano. Ero stato assunto come traduttore da un professore di Diritti Umani di Harvard, che stava lavorando ad un progetto sui palestinesi fuggiti dalla Siria che si erano rifugiati in Giordania e Libano.Stavamo camminando nel dedalo di vicoli di Sabra, Abdullah ci faceva strada. Il professore di Harvard e due sue studentesse stavano andando a incontrare una palestinese scappata della Siria che aveva accettato di incontrarci, per intervistarla.
“Non siamo qui per parlare di suo figlio”
“Incontreremo una donna del campo profughi di Yarmouk” ci disse Abdullah, riferendosi a uno dei campi profughi palestinesi vicino a Damasco. “E’ scappata da due settimana con suo figlio che ha bisogno urgente di cure mediche. Spero riusciate ad aiutare quella povera donna”. Abdullah mi ha afferrato un braccio, incoraggiandomi a tradurre quello che aveva appena detto al gruppo di Harvard.
Alla fine di un vicoletto ci siamo fermati davanti a un mucchio di scarpe fuori da un piccolo appartamento: le tante paia di scarpe indicavano quanta gente doveva esserci lì dentro. Mentre ci toglievamo le nostre per entrare, ho sentito una delle studentesse dire al professore “Non siamo qui per parlare di suo figlio, vogliamo solo sapere la sua esperienza di viaggio dalla Siria a Beirut”.
E poi: “Bene, diamole solo 5 minuti veloci per palrare del figlio, poi cambiamo argomento però”. Il professore decise così’ e mi guardò, per informarmi della sua decisione, visto che ero il traduttore e avrei in qualche modo mediato l’intervista che avrebbero fatto.
Siamo entrati nel piccolo appartamento di Mariam, una palestinese che stava ospitando due famiglie di Yarmouk. Ci siamo seduti e abbiamo bevuto il caffè arabo, aspettando la donna da intervistare, Umm Muhammad. Si accendevano sigarette, per cercare di rompere un silenzio innaturale, ma quando il team di Harvard ha iniziato a tossire le sigarette sono state educatamente spente. Il silnzio alla fine è stato rotto da Umm Muhammad, che è arrivata correndo e scusandosi per il ritardo, cercando di riprendere fiato mentre ringraziava per il grande lavoro umanitario che pensava che stessimo facendo: “Dio ci benedica e vi sia la forza per il lavoro generoso che state facendo per noi”.
Ci furono le presentazioni e i piccoli discorsi introduttivi, timidi, mentre in sottofondo il professore preparava la scena per i suoi studenti. Le domande sarebbero state a turno e ogni studentessa avrebbe fatto una lista di domande già preparate, quel tipo di domande che si usano nelle lezioni di diritti umani. E’ stato subito chiaro per me che il team di Harvard fosse lì per preparare una lezione su come documentare le violazioni di diritti umani in Medio Oriente. Quei palestinesi sfuggiti dalla guerra in Siria non erano altro che soggetti per delle lezioni.
Um Muhammad, una donna di 40 anni, si coprì il viso con una sciarpa beige e indossava un vestito lungo fino alle caviglie. Madre di 4 figli, era nata nel campo profughi palestinese di Burj el Barajne a Beirut. Si era poi trasferita a Yarmouk in Siria negli anni 80, dove, parole sue “bastava essere palestinese per trovarsi facilmente nei guai”.
Il kit dei diritti umani
Um Muhammad sorrideva educatamente, cercando di nascondere la sofferenza che però traspariva dai suoi occhi, che evidenziavano mancanza di sonno e stanchezza. A metà dicembre quando il suo figlio più giovane stava giocando vicino a scuola con gli amici nel campo di Yarmouk, un aereo dell’esercito siriano aveva sganciato una bomba pochi metri più in là. Un pezzo di proiettile si era conficcato nella testa del ragazzo quattordicenne.
Subito la donna aveva portato il ragazzo in un ospedale pubblico a Damasco. “Volevano che firmassi una carta che dichiarava che mio figlio fosse stato ferito dai terroristi. Mi sono rifiutata, dicendo che i ribelli non usano armi simili. Così ho preso il ragazzo e l’ho portato ad un ospedale da campo a Yarmouk, dove però lo hanno solo disinfettato e non avevano mezzi per operarlo.
“L’ho portato qui in Libano, e ho cercato ovunque un posto o qualcuno che potesse pagargli l’operazione, o curarlo” aggiunse. “Ma ricevo sempre la stessa risposta, sia da UNRWA (Agenzia ONU per i rifugiati palestinesi) sia da Hamas e Fatah: “non abbiamo fondi”. E’ già passato un mese. Le conseguenze del permanere del frammento nel suo cranio sta distruggendo il suo stato di salute, giorno per giorno. Ormai non riesce più a parlare.”
Una delle studentesse di Harvard dai suoi 20 anni con fare molto serio, pronta per il suo corso di diritti umani dalla teoria alla pratica, si sedette di fronte alla donna. Il suo “kit dei diritti umani” era pronto: lista di domande, registratore pronto per essere acceso, evidenziatori di diverso colore, carta per appunti. Gli studenti organizzarono i loro mezzi, fecero un cenno al professore e la raffica di domande sui diritti umani ebbe inizio. Iniziarono con l’anagrafica: nome, età, status, numero di figli e luogo di residenza. Mi chiesero di ripetere le domande più volte per confrontare eventuali risposte diverse e verificare che la donna dicesse la verità.
Perchè sei venuta in Libano?
Quanto ti ci è voluto da casa tua al confine?
Cerca di ricordare esattamente quanto ci hai messo.
Come sei arrivata al confine? Con un taxi, un macchina privata o un bus? Che macchina era? Quanto hai pagato?
Chi ha sostenuto il costo del tuo visto?
Dove hai preso i soldi?
Um Muhammad rispose e rispose ancora, ma ricordava a stento i dettagli visto che la sua mente non era concentrata in pieno sul viaggio, vista la sua situazione.
“Sforzati di ricordare”
“Dicci quanto ci hai messo dal campo di Yarmouk all’ospedale il giorno del ferimento di tuo figlio” chiese una studentessa.
Um Muhammad si sforzò di essere precisa e rispose: “L’ospedale non era lontano e c’era un checkpoint, ma ci hanno fatto passare, dunque sarà stato tra 20 e 30 minuti”.
“Dicci esattamente quanto tempo ci hai messo” insistette la studentessa, precisa sulle minute delle sue domande. “20 o 30 minuti? Sforzati di ricordare, anche quanto tempo hai atteso al checkpoint. 5 minuti? 10 minuti? Sforzati di ricordare”.
Mano a mano che si continuava, le risposte di Um Muhammad diventavano sempre più vaghe e confuse, e le studentesse insistevano sui dettagli. Mi venne chiesto di dirle che i dettagli erano fondamentali visto che il gruppo veniva da Harvard per fare un’importante ricerca.
Dopo due ore di questa maratona di domande, Um Muhammad mi guardava con sguardo stupito, visto che percepiva che le sue parole non fossero più credibili per gli intervistatori. Poichè le chedevano di ripetere e ripetere continuamente le stesse cose, sospirò. Ad un certo punto, stanca ma educatamente, si accese una sigaretta e disse: “ Non posso ricordare minuto per minuto ya khalti”, parlandomi come una zia farebbe con un nipote.
Vietato fumare
“Per favore, dille di spegnere la sigaretta”. Um Muhammad non abbe bisogno della traduzione, visto lo sguardo infastidito che si era trovata addosso.
Una delle studentesse continuava con le sue domande insistenti.
“Dille: quando sei arrivata al confine con il Libano, come sapevi quale fosse la porta in cui saresti dovuta entrare?”
“C’era una porta per i libanesi, una per i siriani, una per gli stranieri, dalla quale anche i palestinesi potevano passare” rispose la donna.
“Ma come sapevi che quella porta particolare era per i palestinesi?”
“Non era la prima volta per me in Libano, ti ho già detto che sono nata qui e una delle mia figlie vive qui, per cui avevo già passato la frontiera in passato, per visitarla”.
“Ma quando sei arrivata al confine, come hai capito quale porta dovessi passare? C’era un’insegna? Cosa diceva?”
Um Muhammad mi guardava, confusa.
“Non puoi parlarle”
Il comportamento delle studentesse non era gentile né semplice da gestire, i fogli erano mischiati e alcune domande eliminate. Um Muhammad rispose e rispose ancora sperando di ottenere ciò che voleva: raccontare la storia del figlio e chiedere aiuto per l’operazione.
La frustrazione della donna cresceva in modo evidente: afferrava il suo pacchetto di sigarette, poi lo meteva giù, ricordandosi di non poter fumare. Alla fine, perdendo la pazienza, disse: “ Voglio parlare di mio figlio. Devo dirvi la storia per la quale sono venuta”. Fu interrotta dalla padrona di casa, Mariam, che arrivò con altro caffè per gli ospiti.
Mentre il caffè veniva servito, ne approfittai e dissi a Um Muhammad di un medico che conoscevo al campo di Ein al Hilwe e che forse avrebbe potuto aiutarla, gratuitamente.
Le studentesse, che non capivano l’arabo e che che si sentivano escluse da quello scambio, subito mi apostrofarono: “Cosa sta succedendo? Non puoi parlarle senza dircelo. Cosa le stai dicendo? Dobbiamo sapere tutto quello che viene detto!” e interruppero la mia conversazione con la donna. Il livello già alto di disagio nella stanza aumentò ulteriormente.
“Non siamo venuti qui per questo”
A quel punto, Um Muhammad perse ogni pazienza dopo tre ore di domande.
“Posso parlarvi di mio figlio ora?”. La domanda rimase nell’aria, seguita da un imbarazzante silenzio da parte del team di Harvard. Decisero di bypassare la sua storia dandole “solo 5 minuti per poi tornare all’intervista”.
Mentre la donna raccontava il suo dramma, noi ascoltavamo e annuivamo. Le mie traduzioni precise erano diventate di colpo inutili: mi chiesero di tradurre sommariamente. “Non siamo venuti qui per questo”.
Nessuno era venuto per aiutare nessuno, mi parve chiaro: c’era solo un gruppo di studenti e il loro professore che stava loro facendo una lezione. Quando la storia della donna finì e lei notò lo scarso interesse degli ascoltatori, cercò di andare oltre, chiedendo se potessimo aiutarla. Le studentesse tacquero, guardando il professore per uscire dall’imbarazzante silenzio in cui anche lui era caduto.
Il professore disse: “Includeremo la sua storia nella ricerca che stiamo facendo, e sarà pubblicata ad Harvard”. Poi, il professore mi disse di spiegare alla donna quanto l’università di Harvard fosse importante e rilevante, e di quanta gente avrebbe letto quella ricerca.
Um Muhammad sorrise educatamente, prese la sua borsa, mi guardò e disse: “ E quindi?”.
Il suo sconcerto era difficile da ignorare, le appariva in volto, che tuttavia restava sorridente. Mi chiese: “Vogliono chiedere ancora qualcosa?”
Risposero di sì, che volevano farle ancora qualche domanda ora che aveva finito con la storia del figlio.
Il dilemma dei profughi
Dopo altre due domande, Um Muhammad diventò palesemente nervosa, agitandosi sulla sedia. Rispondeva a fatica, di fretta, come se volesse lasciare la stanza al più presto, con la borsa in mano. Ma le studentesse non notarono questi segnali di disagio, e continuarono imperterrite. Ad un tratto Um Muhammad mi chiese se ci fosse un modo per convincere queste ragazze ad aiutarla. Le risposi di non perdere il suo tempo con loro.
Questo è stato sempre il dilemma dei profughi palestinesi dal 1948: guardare gruppi da tutto il mondo sbirciare nella miseria delle loro vite e delle loro situazioni, e poi andarsene. Fornire le loro storia, drammatiche, personali, a ricercatori, giornalisti e scrittori sembrerebbe essere un modo per indurre un cambiamento e portare la loro situazione davanti agli occhi del mondo.
Ma dove si trova l’umanità in tutto questo? Mentre si raccolgono storie e si fanno ricerche è opportuno ricordare che i profughi meritano la nostra sensibilità, visto che abbiamo a che fare con i loro drammi personali. Sono 65 anni che i palestinesi nei campi si aggrappano disperatamente a ogni piccolo aiuto o parvenza di speranza che possono.
Ma, alla fine, vengono lasciati ad aspettare di tornare nell’unico posto dove la loro dignità e umanità possa essere riconsiderata e ricostruita: la Palestina.
Moe Ali Nayel è un giornalista freelance che vive e lavora a Beirut, Libano. Per seguirlo su Twitter: @MoeAliN.
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