Umbrella Revolution – Terzo mese di presidio
Riceviamo da un’amico, di passaggio ad Honk Kong per lavoro, alcune veloci impressioni su quanto sta accadendo in quel contesto. Nel condividerle con voi pensiamo sarebbe importante sviluppare ulteriormente la conoscenza con ciò che accade in quella situazione e invitiamo altre/i a mandarci contributi in questo senso”.
—-
“Non vogliamo la Rivoluzione, vogliamo semplicemente la Democrazia”.
Queste le parole di uno dei giovanissimi leader della protesta che sta bloccando da settimane il centro di Hong Kong.
Il governo di Pechino con la riforma elettorale ha preteso di controllare le candidature alle prossime elezioni della città-arcipelago, “regione amministrativa speciale”, che gode (assieme a Macao) di un’indipendenza amministrativa e politica.
“Partecipare a questa lotta è come scegliere di fare il soldato: bisogna essere pronti a sacrificare la propria vita”.
Così mi dice Benny, un mio giovane collega autoctono, figlio di tassisti, che sta partecipando al movimento.
“I miei genitori sono molto preoccupati sia per me, che per il nostro futuro. Hanno ben in mente le immagini di Tienanmen e sanno che in Cina basta poco per sparire nel nulla”.
Mi chiede cosa ne pensiamo in Italia e gli rispondo che siamo con loro e che crediamo anche noi che la democrazia sia un valore da difendere tutti i giorni.
Parliamo in inglese, le nostre storie sono diversissime, ma i principi che i manifestanti stanno portando in piazza ci uniscono.
Molti “hongkonghesi” sono già emigrati in Canada o altrove e in tanti stanno pensando di andarsene.
Con l’affermarsi del dominio cinese sulla città progressivamente le libertà sociali e politiche si stanno affievolendo e l’imposizione del controllo elettorale è solo la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Ad Hong Kong c’è libertà di stampa, di impresa, di opinione, la comunicazione sul web non è limitata, ma per quanto ancora? Basta varcare la frontiera a 10 Km dal centro e tutto cambia: c’è il regime. Gli artisti, i cantanti, gli attori e gli intellettuali che hanno appoggiato le proteste sono stati banditi dal governo cinese che ha imposto alle loro case di produzione/discografiche/editoriali di non farli più lavorare pena la chiusura.
“Sì, sono d’accordo con i princìpi, ma non credo che occupare le strade sia il metodo giusto”, così mi dice invece Andrew, un ragazzo “meticcio” di padre hongkonghese e madre europea. Lui crede che siano i metodi democratici, ovvero i rappresentanti al governo della città, a dover difendere quei princìpi. Non si rende conto, credo, che essi hanno le mani legate, per non dire la pistola alla tempia e sono obbligati ad eseguire quello che viene loro imposto.
Infine, in questa breve settimana di permanenza, sono riuscito a raccogliere un’altra opinione, in un intervallo di tempo sul lavoro che svolgevo: quella di Ana, una ragazza brasiliana che vive qui come immigrata di lusso e fa parte di quel gran numero di lavoratori stranieri che dà ossigeno agli uffici delle società multinazionali che ad Hong Kong a centinaia hanno le loro sedi. “Per me vivere qui o a Singapore, o a New York, non cambia nulla, alla peggio cambierò città”.
Sono questi tre esempi di come l’opinione sulle azioni politiche vari a seconda dell’estrazione sociale, della condizione economica e dell’affezione al posto in cui si vive.
Il mio caro Benny sta realizzando un documentario su questo movimento con diverse interviste e cercherà di resistere, Andrew continuerà a vivere in equilibrio nella sua condizione medio-borghese e Ana magari se ne andrà a lavorare in un altro grattacielo…
Se nel nostro immaginario la Rivoluzione faceva brillare le stelle rosse, oggi la Resistenza dei giovani di Hong Kong si oppone proprio ad un modello di comunismo degenerato in un regime imperialista e capitalista, dove i lavoratori non hanno diritti, gli artisti non possono che lodare il governo, le libertà di stampa e di opinione sono represse e la dignità dei cittadini calpestata da un partito unico. Democrazia e Libertà sono le parole chiave della protesta: i giovani di Hong Kong sanno che senza di esse il loro futuro non sarà sereno.
A me non resta che riprendere l’aereo che in 12 ore mi riporterà a Milano. Sorvolerò le provincia di Shen Zen, appena oltre il confine, dove centinaia di fabbriche producono a cicli ininterrotti le merci (“vere” e “false” contemporaneamente), destinate al mercato globale, dove gli operai lavorano come schiavi e le ciminiere disperdono veleni nell’aria senza controllo e limite.
Speriamo che la protesta continui e porti a casa qualche risultato!
Queste le parole di uno dei giovanissimi leader della protesta che sta bloccando da settimane il centro di Hong Kong.
Il governo di Pechino con la riforma elettorale ha preteso di controllare le candidature alle prossime elezioni della città-arcipelago, “regione amministrativa speciale”, che gode (assieme a Macao) di un’indipendenza amministrativa e politica.
“Partecipare a questa lotta è come scegliere di fare il soldato: bisogna essere pronti a sacrificare la propria vita”.
Così mi dice Benny, un mio giovane collega autoctono, figlio di tassisti, che sta partecipando al movimento.
“I miei genitori sono molto preoccupati sia per me, che per il nostro futuro. Hanno ben in mente le immagini di Tienanmen e sanno che in Cina basta poco per sparire nel nulla”.
Mi chiede cosa ne pensiamo in Italia e gli rispondo che siamo con loro e che crediamo anche noi che la democrazia sia un valore da difendere tutti i giorni.
Parliamo in inglese, le nostre storie sono diversissime, ma i principi che i manifestanti stanno portando in piazza ci uniscono.
Molti “hongkonghesi” sono già emigrati in Canada o altrove e in tanti stanno pensando di andarsene.
Con l’affermarsi del dominio cinese sulla città progressivamente le libertà sociali e politiche si stanno affievolendo e l’imposizione del controllo elettorale è solo la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Ad Hong Kong c’è libertà di stampa, di impresa, di opinione, la comunicazione sul web non è limitata, ma per quanto ancora? Basta varcare la frontiera a 10 Km dal centro e tutto cambia: c’è il regime. Gli artisti, i cantanti, gli attori e gli intellettuali che hanno appoggiato le proteste sono stati banditi dal governo cinese che ha imposto alle loro case di produzione/discografiche/editoriali di non farli più lavorare pena la chiusura.
“Sì, sono d’accordo con i princìpi, ma non credo che occupare le strade sia il metodo giusto”, così mi dice invece Andrew, un ragazzo “meticcio” di padre hongkonghese e madre europea. Lui crede che siano i metodi democratici, ovvero i rappresentanti al governo della città, a dover difendere quei princìpi. Non si rende conto, credo, che essi hanno le mani legate, per non dire la pistola alla tempia e sono obbligati ad eseguire quello che viene loro imposto.
Infine, in questa breve settimana di permanenza, sono riuscito a raccogliere un’altra opinione, in un intervallo di tempo sul lavoro che svolgevo: quella di Ana, una ragazza brasiliana che vive qui come immigrata di lusso e fa parte di quel gran numero di lavoratori stranieri che dà ossigeno agli uffici delle società multinazionali che ad Hong Kong a centinaia hanno le loro sedi. “Per me vivere qui o a Singapore, o a New York, non cambia nulla, alla peggio cambierò città”.
Sono questi tre esempi di come l’opinione sulle azioni politiche vari a seconda dell’estrazione sociale, della condizione economica e dell’affezione al posto in cui si vive.
Il mio caro Benny sta realizzando un documentario su questo movimento con diverse interviste e cercherà di resistere, Andrew continuerà a vivere in equilibrio nella sua condizione medio-borghese e Ana magari se ne andrà a lavorare in un altro grattacielo…
Se nel nostro immaginario la Rivoluzione faceva brillare le stelle rosse, oggi la Resistenza dei giovani di Hong Kong si oppone proprio ad un modello di comunismo degenerato in un regime imperialista e capitalista, dove i lavoratori non hanno diritti, gli artisti non possono che lodare il governo, le libertà di stampa e di opinione sono represse e la dignità dei cittadini calpestata da un partito unico. Democrazia e Libertà sono le parole chiave della protesta: i giovani di Hong Kong sanno che senza di esse il loro futuro non sarà sereno.
A me non resta che riprendere l’aereo che in 12 ore mi riporterà a Milano. Sorvolerò le provincia di Shen Zen, appena oltre il confine, dove centinaia di fabbriche producono a cicli ininterrotti le merci (“vere” e “false” contemporaneamente), destinate al mercato globale, dove gli operai lavorano come schiavi e le ciminiere disperdono veleni nell’aria senza controllo e limite.
Speriamo che la protesta continui e porti a casa qualche risultato!
Tommaso Santuari
Tag:
canada cina honk kong indipendenza stampa