“Di proibizionismo si muore” – Una riflessione sul consumo di sostanze stupefacenti a partire da me
Ok, la farò un po’ lunga perché le considerazioni che voglio fare sono tantissime, composite e complesse, tutte scatenate da quello che leggo su social e sui media mainstream a proposito di droghe.
Sono femminista, e quindi partirò da me, come nella migliore tradizione, perché quello che sono oggi e ciò in cui credo sono frutto e conseguenza della mia storia.
Quando andavo al liceo ho passato un periodo in un parchetto vicino a scuola a fumare canne e ciloom. Non ho mai amato la cannabis, ma ricordo nitidamente che il senso di appartenenza ad un gruppo passava anche da li, o almeno al gruppo a cui io volevo appartenere. Ci ho messo poco a capire che fare una roba che mi dava degli effetti che non mi piacevano non aumentava la mia popolarità (in pratica quando fumavo facevo cagare), ho così pressoché abbandonato il thc se non per un brevissimo periodo anni dopo, quando smisi di fumare sigarette e decisi che potevo fumare le canne, cazzata micidiale: ho ricominciato con le sigarette e le canne hanno continuato a non piacermi. Tutt’ora quando dichiaro di non fumare canne perché non mi piacciono la stragrande maggioranza delle reazioni è di stupore: eeeehhh…. Impossibile! Vabbe dai, andiamo oltre.
Avevo quasi 18 anni quando ho provato per la prima volta la cocaina, l’unico modo di utilizzo che ho messo in pratica è stato lo sniffo, mai fumata e mai iniettata. Da quel giorno ho provato tutte le sostanze stupefacenti maggiormente diffuse ad eccezione della ketamina, vederne gli effetti su altr* mi ha sempre fatto impressione. Fino al 2004-2005 il mio consumo è sempre stato abbastanza inconsapevole, poco ragionato e poco attento, ma in quei primi anni mi ponevo limiti sul tipo di sostanza abbastanza stretti: alcool, cocaina (a volte speed), qualche allucinogeno e occasionalmente Mdma, solo con amici, in contesti in cui mi sentivo tranquilla e sicura, non perché fossi particolarmente brava, ma perché altre sostanze e la completa perdita del controllo mi facevano paura (la paura dovete sapere è uno dei primi meccanismi di protezione del nostro inconscio, benvenuta dunque!).
Non ho sempre avuto fortuna: la prima pastiglia me l’hanno data di nascosto (spiacevolissimo), e mi è capitata anche robaccia tagliata male, per fortuna sempre in buona compagnia. In generale però devo dire che sono stata fortunata, molto. Ho frequentato ambienti e persone in cui il consumo di sostanze stupefacenti era molto diffuso, ma anche luoghi e spazi in cui non era ammesso, anche se poi il confine era molto sottile. Sono cresciuta comunque con la consapevolezza che le sostanze stupefacenti fossero parte della vita delle persone, non tutte le sostanze e non tutte le persone certo, ma c’erano, non potevo affermare il contrario. Alcuni hanno avuto storie peggiori della mia, il confine fra l’uso e l’abuso è facile da superare e tornare indietro non è così semplice e me lo hanno dimostrato in molti, ma si può, e me lo hanno dimostrato in altrettanti.
Poi nel 2005 mi hanno proposto di lavorare nel primo progetto di Unità Mobile di prevenzione e riduzione del rischio nei luoghi del divertimento a Milano. Fino a quel momento il concetto di unità mobile era legato e limitato alla distribuzione delle siringhe e all’accesso ai servizi a bassa soglia. Noi sostanzialmente andavamo alle serate, nei pub, ai concerti, facevamo informazione sulle sostanze e misuravamo il tasso alcolico ai guidatori prima che si rimettessero in macchina. Con il passare del tempo come operatori abbiamo capito che serviva di più e abbiamo attivato anche sperimentazioni legate alla riduzione del danno (chill-out, distribuzione di acqua e cibo gratuiti, spazi di ascolto…) pur senza mai dirlo troppo ad alta voce: la regione Lombardia che finanziava i progetti non voleva sentir parlare di riduzione del danno e fingeva di non vedere la contraddizione che stava nel parlare di prevenzione nei luoghi del consumo. Abbiamo lavorato nei pub, nei centri sociali, sulle strade, nelle piazze, nelle discoteche. I soldi sono diventati sempre meno, e i vicoli sempre di più: oggi a Milano le unità mobili lavorano “a cottimo”, gli operatori sono pagati in base al numero di contatti che fanno e le sperimentazioni sulle zone della “movida” sono dipendenti dall’assessorato alla sicurezza, che fa ben intendere le motivazioni che stanno dietro all’attivazione dei progetti.
Sempre in quei lontani anni 2004-2005 ho cominciato a lavorare nelle scuole con progetti di prevenzione alcool e droghe, ho cominciato a ragionare tanto sull’alcool, a proposito di abuso di massa, di conseguenze devastanti, di consumi problematici e dipendenza (enormemente più numerose rispetto a quelle di tutte le altre sostanze stupefacenti messe insieme), mi sono trovata a difendere la legge sull’alcool alla guida, perché siamo gente così, in fondo impariamo solo quando abbiamo paura di una punizione severa, siamo sempre bambini. Ho ragionato sulle dipendenze, al plurale come è giusto che sia, sul concetto della ricerca del piacere e del superamento dei limiti. Da allora sono in formazione continua sui consumi e sulle sostanze nuove o meno nuove, sulle statistiche di diffusione, sulle tecniche terapeutiche ma anche di intervento preventivo, sulle leggi e sugli studi delle conseguenze
Ho attraversato un movimento antiproibizionista che si chiamava MDMA (movimento di massa antiproibizionista) che ebbe i suoi momenti migliori negli anni dell’approvazione della Fini-Giovanardi, una delle peggiori leggi sulle sostanze stupefacenti che il nostro paese ricordi.
Ho incontrato da vicino progetti di sperimentazione radicali, molto più simili ai percorsi nord-europei che alle esperienze italiote, primi fra tutti quelli del Lab57 (legato al Livello 57 di Bologna) e del gruppo Abele di Torino, i percorsi di Fuoriluogo e i tanti dell’Emilia Romagna, l’esperienza della comunità di San Benedetto e di Don Gallo, non certo gli unici, ma quelli più raggiungibili per me.
Ho usato altre sostanze da allora, ma conoscendole molto meglio, sapendo valutare i come, i dove e i con chi, mi sono spinta un pò oltre la paura per la curiosità, ho saputo riconoscere momenti in cui stavo superando dei limiti, momenti in cui dovevo ammettere di non stare bene, di aver bisogno di aiuto, per una sola serata girata storta o anche per un pò di tempo in più. Ho sperimentato perché credo stia nelle possibilità delle persone, sia una libertà a cui non voglio rinunciare. Non è un obbligo usare sostanze, ma non può nemmeno essere un divieto, un tabù. Il proibizionismo fa male, lo dimostrano gli articoli che leggiamo in questi giorni, la mancanza di conoscenza e competenza di chi consuma e di chi specula sulle tragedie, sulle vittime prima di tutto della sfortuna. Perché credo che prima tutto il consumo di sostanze stupefacenti sia un gioco d’azzardo, più conosco, più sono competente, più è controllato ciò che consumo, meno rischi corro, ma comunque non si azzereranno mai, non mi stancherò di dirlo.
Ho visto il movimento antiproibizionista scomparire, troppo spesso nei meandri di consumi che di consapevole avevano solo il nome, l’etichetta, la pretesa. Possono essere uno strumento di controllo potentissimo le sostanze stupefacenti, come molti altri che abbiamo imparato a padroneggiare (più o meno).
Non aprirò qui il dibattito sul lavoro sociale, che non sempre esprime posizioni illuminate, anche se alcuni buoni esempi ci sono, i giochi restano aperti e sono sicura che in molti si impegneranno per il meglio.
Parlerò da attivista politica. Ora ho 33 anni, ancora mi sbronzo e occasionalmente (direi raramente) consumo altre sostanze stupefacenti. Se questo fa di me una compagna meno compagna siete tutti liberi di andare a studiare il mio curriculum militante, se avete bisogno di verificare quante stellette ho sul petto fate pure, non ho niente da rimproverarmi. Per questo credo che sia nostro preciso dovere lottare ancora per le libertà delle persone, e fra queste ci metto anche l’uso di sostanze stupefacenti, con cervello e con una posizione critica. Il problema non è l’uso in se, ma la mancanza di competenze e consapevolezza. Il problema non è cercare il divertimento anche con le sostanze stupefacenti, ma la mancanza di una cultura del divertimento slegato da esse, la mancanza di possibilità di evasione e di sperimentazione, anche dei propri limiti, in sicurezza. In un paese in cui i luoghi di aggregazione maggiori sono i bar, i pub o le discoteche con consumazione obbligatoria un ragionamento sull’alcool apre le porte a quello su tutte le altre sostanze stupefacenti.
Per questo non posso che condannare la campagna mediatica e politica che torna alla ribalta periodicamente, nei momenti di allarme, o in quelli in cui torna utile crearlo ad hoc un allarme sociale, magari per bloccare una proposta di legge sulla cannabis che non è perfetta ma attualmente è di sicuro il meglio che abbiamo.
Perché non è di droga che si muore, ma di disinformazione, di incompetenza, di mancanza di tutela, tutti frutti delle cieche politiche proibizioniste.
Credo sia nostro preciso dovere creare luoghi fisici e spazi di apertura e di supporto, di conoscenza e non di pre/giudizio e di condanna, questo è il mondo li fuori e noi dobbiamo essere altro.
Per questo trovo intollerabile leggere e ascoltare parole di condanna e di disprezzo nei confronti di chi usa sostanze, soprattutto quando quelle parole provengono da quei luoghi, i nostri luoghi che dovrebbero agire e spingere altro.
Non sono qui a sostenere la cultura dello sballo, ma quella del ballo, di chi non si copre gli occhi con giudizi e divieti, perché se non posso ballare non è la mia rivoluzione.
@laMarti
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