Grandi brand vs. Trump – Non è tutto oro quello che luccica…

14841532_14797941255148_rId6Trump ha vinto le elezioni, l’inimmaginabile è diventato realtà. Il duce dai capelli biondi, spalleggiato da suprematisti bianchi, Ku Klux Klan e xenofobi di ogni specie, ha ereditato da Obama la valigetta col pulsante in grado di decretare la fine del mondo. Come successo anche con la vittoria di Bush junior, lo sdegno ha riempito di manifestanti le strade delle principali città degli Stati Uniti d’America. Questa volta però molto più che in passato. Tra le proteste degli afroamericani contro la violenza poliziesca, le oceaniche manifestazioni femministe, gli aeroporti bloccati contro il muslim ban e i Sioux che minacciano di assaltare la Casa Bianca, l’anti-trumpismo è diventato identità di una fetta rilevante di popolazione che va ben oltre i confini U.S.A.

In questa polveriera alcune delle principali multinazionali hanno preso voce in capitolo, attaccando direttamente e pubblicamente Trump. Uno scenario inedito, specie per chi ha sempre manifestato contro le politiche predatorie messe in atto sia dagli Stati Uniti che dalle Corporation che hanno utilizzato Sud America e Africa come il giardino sul retro. Qualcuno dice che ciò è dovuto al fatto che hanno finanziato generosamente la campagna elettorale di Hillary, e una volta perso, si stanno lamentando. Altri, un po’ vetero e non sempre da sinistra, sostengono che siccome gli immigrati sono per eccellenza ”l’esercito di lavoro di riserva”, senza immigrati da sfruttare bisognerà inevitabilmente rialzare gli stipendi dei lavoratori. Altri ancora pensano che sia a causa dell’idea di Trump di combattere la delocalizzazione dell’industria con pesanti sanzioni fiscali. Costringendo in questo modo Apple, Nike e altri a dover cessare di appaltare la produzione di I-phone e scarpe ad aziende situate al di fuori dei confini Statunitensi. Molto spesso attive in Zone a Economia Speciale, porti franchi con benefici fiscali e forza lavoro vessata da condizioni lavorative da pre-fordismo.

Non è tutto qui. A prescindere da quanto possa essere relativamente vero o falso, limitarsi a questo sembra un po’ ingenuo. Come sembra ovviamente impensabile che multinazionali che sfruttano e devastano in giro per il mondo abbiano qualche interesse etico al di fuori del profitto. Nel mondo in cui viviamo il Brand per una multinazionale è tutto. Vengono spesi più soldi per operazioni di Branding e per campagne di marketing aggressive che per la produzione stessa dei beni che vengono venduti. Questo significa che ogni uscita pubblica, ogni campagna pubblicitaria, ogni posizionamento politico, dall’ecologismo, al gay friendly, non è frutto dell’azione di manager coraggiosi o comitati di lavoratori scarmigliati. Ognuna di questa decisioni prima di divenir pubblica viene accuratamente elaborata dalle migliaia di esperti che ne determinano per filo e per segno la forma e il contenuto. Ogni frase, ogni immagine, dalle cose più scontate e banali, a quelle più serie e rilevanti, è frutto di centinaia di studi e ricerche. La comunicazione è una scienza e nulla si dà al caso. Neanche e soprattutto vicende come quella che stiamo affrontando. Dal punto di vista del branding, cosa ci guadagna Starbucks a dichiarare pubblicamente che assumerà assieme a Google 10.000 immigrati? Come dicevamo all’inizio, l’anti-trumpismo è diventata un’identità che investe una buona metà degli americani e che trova simpatizzanti in tutto il mondo. Quello che sta accadendo è molto semplice. Gli squali che elaborano strategie di branding sono partiti all’assalto, cercando nuovi alfieri che possano esporre fieramente il loro logo sulle proprie t-shirt, nuove persone che possano sentir parte di sé un oggetto di consumo. Vogliono che ci si identifichi in ciò che ci propongono di consumare. Sicuramente la politica protezionista di Trump osteggia parte dei loro interessi, non sempre e soprattutto non per tutti coloro che hanno preso posizione, motivo in più per mettere in atto questa grande macchina comunicativa. E’ ovvio però che se non ci fosse stato un movimento anti-Trump così forte nessuno di questi grandi logo avrebbe preso posizione.

Oltre al marketing e alla difesa dei propri interessi c’è anche un altro aspetto che appare in questo prendere posizione ed è un aspetto “ideologico”.  Il management globale delle multinazionali (o di alcune di esse) ha introiettato l’idea del mondo aperto e in continuo movimento dove commerci, uomini (beh…gli uomini un po’ meno…sopratutto se non sono bianchi e ricchi…) e capitali si muovono senza barriere. Un progetto molto aderente alle idee dei democratici americani, ma anche dei democratici nostrani. Se si ascoltano i dibattiti interni al PD infatti, si parla sempre più spesso di un nuovo scontro ideologico in atto. Il “vecchio” scontro libertà vs. uguaglianza (dove con libertà si intende quasi sempre la libertà d’impresa, di proprietà e di far soldi) sarebbe stato sostituito dal nuovo scontro: apertura vs. chiusura. Lo sostiene Renzi. Ma lo sostiene anche Macron in Francia.

Di fianco alle spinte utilitaristiche quindi, anche spinte “ideologiche”.

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