Per un’Europa delle autonomie territoriali confederate
Non chiediamoci perché oggi l’idea di Europa goda di così poca popolarità. Non serve nemmeno tirare in ballo la crisi. Il processo di formazione dell’Unione Europea, il susseguirsi di trattati internazionali che ne ha disegnato l’architettura istituzionale, si presenta infatti come una progressiva rinuncia alla prassi democratica quale pilastro nella costruzione politica dello spazio continentale. Costituitosi a Roma sessant’anni fa, il processo di integrazione ha definitivamente sancito, con la tappa di Maastricht, che il governo dello spazio europeo sarebbe stato appannaggio di organi tecnici, Commissione e BCE su tutti, al riparo da qualsiasi reale controllo. L’Unione Europea è dunque strutturalmente un’istituzione della crisi democratica, piegata agli interessi delle oligarchie neoliberali. Dunque non c’è da stupirsi che, in tempi difficili, i cittadini non si votino ad uno spirito europeista per aiutarsi reciprocamente a superare le difficoltà.
Il famoso manifesto di Ventotene tanto sbandierato dai leader europei, scritto nel 1941 da un gruppo di antifascisti al confino, è rimasto prigioniero nell’isola. Nell’Europa delle istituzioni non c’è nulla che richiami ad una federazione in grado di garantire i diritti basilari a tutti i cittadini oltre gli steccati nazionalistici. Vi è solo l’arroganza dell’imposizione finanziaria, della dittatura del debito sovrano quale meccanismo di ricatto, quello sì, a cui nessun governo nazionale può sottrarsi. Si può imporre dunque la violenza dell’austerità: privatizzare i beni comuni, distruggere lo stato sociale, erodere i diritti del lavoro, imporre una visione neocoloniale del nord nei confronti del sud, ma non è possibile impegnare nessuno in una politica dell’accoglienza dei migranti condivisa ed efficace, con l’effetto che l’Unione è incapace di costruire nuova cittadinanza di cui avrebbe (visto anche l’invecchiamento demografico) assolutamente bisogno.
Questa Unione Europea, che istituzionalizza la crisi democratica, trova come proprio contraltare il vecchio mostro, mai defunto ed oggi rinvigorito, del nazionalismo. Le forze politiche identitarie e neofasciste avanzano ovunque in tutto il Continente, ma la tentazione sovranista striscia anche a sinistra in forme più o meno esplicite, dalle irricevibili opzioni patriottico-socialiste fino alle ipotesi che si richiamano a teorie più raffinate sul populismo e guardano alle esperienze bolivariane del Sud America. Noi, di nazione, continuiamo a non volerne sentire parlare.
E’ dunque scontato dire che il 25 marzo saremo a Roma contro le istituzioni europee neoliberali e contro il raduno razzista delle destre, ma non basta. Crediamo servano altri distinguo.
Primo: siamo convinti che la crisi delle istituzioni europee, per ciò che esse sono nella materialità e non nei proclami, debba essere radicalizzata: per questo non ci interessano le operazioni che propongono nuovi partiti di sinistra, nati da tattiche di riposizionamento del ceto politico, che si attribuiscono la mission di “riformare e democratizzare” le istituzioni europee.
Secondo: siamo convinti sia errato, anche a sinistra, pensare di attaccare il sistema neoliberale attraverso un ritorno alla nazione, al sovranismo, al protezionismo. Non ci allineiamo a quanti, anche se pochi, vedono nella vittoria di Trump un colpo decisivo “al potere della finanza” e alla NATO: ditelo ai migranti, agli afroamericani, alle donne, alla comunità LGBTQ e ai nativi di Standing Rock! Così come non abbiamo nulla da condividere con chi sostiene un dittatore sanguinario come Assad “perché è socialista” o non riesce a rinunciare alla tentazione di vedere in Putin qualche eco della vecchia gloria sovietica.
Non siamo nemmeno con chi pensa che un’uscita dall’Euro possa essere risolutiva, non perché amiamo la moneta a guida tedesca, ma perché la moneta è un’istituzione e come tale incorpora i valori di una società che la produce. E i valori che noi vorremmo di certo non si annidano nello spazio nazionale più di quanto non abitino quello continentale. “Euro sì, Euro no” è un falso problema. Non è la nostalgia del vecchio conio che dovrebbe guidarci, ma il progetto di una società diversa e dunque di una moneta diversa.
Non rinunciamo alla costruzione di una dimensione internazionale ed europea come spazio strategico per tentare di rovesciare i rapporti di forza.
Certo, i processi di soggettivazione nello spazio europeo sono difficili. Non pensiamo che esista oggi un general intellect europeo così consapevole della propria potenziale autonomia, da attivare con qualche parola d’ordine per produrre una rottura nel punto più avanzato della produzione. Allo stesso modo pensiamo che quella di popolo sia una categoria altrettanto scivolosa, che riduce ad uno ciò che è molteplice, finendo con il ricercare la spinta per il cambiamento proprio in quelle pulsioni che, invece, occultano le differenze di classe, alimentano la guerra tra poveri e costituiscono l’habitat dentro cui xenofobia e razzismo conquistano cittadinanza. Ma nonostante le difficoltà che certamente ostacolano i percorsi e la generalizzazione delle prospettive, continuiamo a pensare che lo spazio europeo sia uno spazio strategico per l’azione dei movimenti e per i processi di cambiamento.
L’Europa che vogliamo non è certo a portata di mano: eppure è una prospettiva concreta che si materializza da subito nello scontro con l’Europa che c’è, quella dell’austerity, del saccheggio dei territori, dei muri contro i migranti, dell’imposizione economica e politica. E’ all’interno di questa dimensione conflittuale, che cresce nelle condizioni materiali, che dobbiamo riuscire a far vivere non la rinuncia allo spazio europeo, ma la prospettiva della sua conquista alle ragioni ed ai bisogni di chi vive nei suoi territori. Una prospettiva di cui è necessario e possibile ricostruire la narrazione, partendo da quelle dinamiche che, in forme differenziate (probabilmente per alcuni incoerenti) e attraverso percorsi talvolta “rocamboleschi”, di fatto aprono fratture e contraddizioni nella governance europea. La moltitudine di soggetti che nel 2016, trasgredendo agli ordini del Stati e dell’Unione, hanno violato confini, normative e appartenenze per aprire spazi di libertà ai migranti approdati in Europa sono un esempio eloquente del potenziale che c’è e che in tante altre occasioni rimane inespresso. Anche il tentativo di diverse città europee di ribellarsi ai diktat della UE e dei governi nazionali costituisce un altro tracciato in grado di portare valore nella sua vocazione di contrapposizione sia al nazionalismo che alla governance transnazionale dell’austerità. Non solo perché sono percorsi che si richiamano storicamente all’eredità del municipalismo, ma anche perché oggi riescono a mostrare la forza di un legame sociale sempre meno praticato e rappresentato. Pensiamo al sud dell’Europa, all’esperienza di Napoli, ma anche a quelle di alcune grandi città spagnole: le mobilitazioni che solo qualche giorno fa hanno attraversato Barcellona, ci hanno regalato la splendida immagine di centinaia di migliaia di persone in marcia per affermare la disponibilità ad un’accoglienza degna.
E’ proprio da ciò che, nonostante tutto, vive, si muove, cresce e trasgredisce nei territori che può trarre origine e forza la nostra idea di Europa, che è prima di tutto contro l’Europa della governance e quella degli Stati-nazione: l’Europa dei territori.
Il confederalismo democratico sperimentato in Rojava, sebbene assai differente dall’esperienza dell’EZLN, come questa assume i tratti di un’affascinante utopia concreta, realizzata sotto forma di federazione di comuni (dunque non come Stato) che praticano l’autogoverno.
Il nostro racconto, ancora in larga parte da scrivere, è quello di uno spazio europeo che sovverte l’opposizione tra città e ciò che sta oltre le grandi metropoli globali, cosmopolite e interconnesse. Per noi, “sporcarsi le mani”, significa disinnescare la narrazione che contrappone Napoli a Gorino, oppure Venezia al Veneto e, più in generale, i grandi centri europei alla Vandea che li circonda. Questo è, nell’attuale fase di crisi, il discorso sullo spazio imposto dall’avanzare di quelli che abbiamo definito I neofondamentalismi, ovvero i populismi reazionari.
Ma c’è molto altro, le lotte territoriali hanno dimostrato di sapere tenere assieme radicalità e legame sociale. Pur nella loro diversità, esse alludono all’autogoverno e rompono l’egemonia dei modelli di soggettivazione neoliberale, modelli che vedono uniti il pubblico e il privato nell’interpretazione della geografia come geografia del profitto e della rapina, divisa in Europa di serie A e di serie B. I territori espropriati, saccheggiati, cementificati, serbatoi di nuova accumulazione attraverso la rendita, continuano a produrre una molteplicità di lotte la cui ricchezza necessita di essere federata a livello europeo. Si tratta di lotte che colgono, tra l’altro, il nodo dell’alienazione della decisione democratica, sempre più lontana dalle mani degli abitanti. Esse, pur rivolgendosi in prima battuta alle amministrazioni e poi allo stato, non rinunciano a presentare le proprie istanze anche in sede europea. Difficilmente trovano risposte soddisfacenti, ma ciò dimostra quanto sia radicata la consapevolezza dello spazio continentale come piano in cui opporsi e rallentare la vorace macchina dei modelli di sfruttamento, resi esecutivi dai governi nazionali. Pure i territori, come la nazione, sono luoghi attraversati da forti tensioni populiste, eppure sono anche gli spazi da cui emergono le alternative più interessanti alle pulsioni reazionarie che invariabilmente caratterizzano i popoli nazionali europei.
Il nostro orizzonte è dunque quello di uno spazio continentale in cui città e territori ribelli si compenetrino per costruire una macchina in grado di unire la potenza infrastrutturale delle prime alla ricchezza delle lotte che sono sedimentate nei secondi. Una federazione delle autonomie territoriali, delle loro lotte, è il punto di partenza per lasciarsi alle spalle tutte le idee esauste di Europa, e per costruirne altre in cui milioni di persone possano tornare a riconoscersi.
Il 25 marzo i principali responsabili della catastrofe europea si ritroveranno per celebrare l’inizio del processo di integrazione segnato dai Trattati di Roma. Una Costituzione europea fondata su basi democratiche radicali e su diritti e welfare universali non esiste e non è mai esistita: l’Unione Europea si regge solo su trattati finanziari, sulla libera circolazione delle merci, sugli interessi di profitto ed i loro addentellati nazionali che operano all’interno dell’architettura comunitaria.
Noi il 25 marzo saremo a Roma per dire che l’Europa dei Trattati non la vogliamo, perché la nostra Europa è quella dei territori, dei diritti, della libertà, della ridistribuzione radicale delle ricchezze e dei poteri, che la nostra Europa è quella che abbatte i confini perché non vogliamo stare né dentro né fuori della fortezza, ma sopra le macerie delle sue mura.
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