“Fotti la censura!”. I movimenti e la questione digitale: un primo sguardo complessivo
Giovedì 17 ottobre, mentre nella provincia dell’Impero si protestava con articoli e comunicati contro la censura di molte pagine Facebook solidali con il Rojava, Mark Zuckerberg teneva una conferenza sulla libertà di parola a Washington, all’Università di Georgetown, spiegando perché non voglia censurare i post dichiaratamente falsi, pubblicati in modo provocatorio da Elizabeth Warren.
La casuale concomitanza di questi due eventi mostra che, in un mondo in cui una sola multinazionale gestisce le comunicazioni di quasi la metà degli abitanti dell’intero globo, un discorso fatto da chi controlla la piattaforma negli Stati Uniti, può risultare grottesco visto dall’altra parte dell’oceano.
Ma in ogni caso, volenti o nolenti, ci fa capire che questa questione va affrontata da un punto di vista complessivo e strutturato, se vogliamo davvero capirci qualcosa.
Ho cercato quindi di collegare in uno stesso discorso tre problemi ben distinti ma connessi che possono essere affrontati anche separatamente, a discrezione di chi legge; ecco un sommario:
(1) Un’analisi dell’oscuramento delle nostre pagine che parte sottolineando alcune particolarità del colosso, che non può essere inteso solo come una qualsiasi azienda privata, indicando l’episodio come vero atto di censura e non come normale amministrazione.
(2) La cronaca del dibattito americano sulla regolamentazione delle piattaforme:
i vari fronti su cui Facebook è sotto attacco, il cambiamento dei termini del discorso con cui si difende (dalla privacy alla libertà di parola), il cambio di ruolo che sta interpretando (da azienda neutrale a leader politico) e infine il dibattito sulla regolamentazione del social in vista delle elezioni americane, in particolare con il caso Warren.
(3) Per ultimo, ma più importante, un’analisi politica che cerca di identificare una controparte (“zuckOne”), definendo un quadro complessivo e sistemico (le piattaforme e la sorveglianza) e provando a esemplificare delle pratiche per agire dentro e contro lo stesso social media di massa (gli esempi provocatori del riocontra e di Pepe the Frog).
Sapendo di non poter andare nello specifico dei molti dei temi trattati, spero che questo documento possa essere una mappa iniziale per successivi approfondimenti.
(1) Quello che è successo da noi.
Pubblico o privato, comunque ci riguarda.
Facebook è e rimarrà una multinazionale, proprietaria di tutto quello che viene caricato sul suo server, secondo le normative che ci obbliga ad accettare, create per permettere di perseguire l’interesse privato e mai quello pubblico. D’altra parte, non possiamo negare che, essendo il social media con più utenti al mondo e ponendosi su molti fronti come istituzione sovranazionale più che come semplice azienda, è spesso interpretato erroneamente come spazio pubblico.
Negli ultimi decenni le ibridazioni tra pubblico e privato si sono moltiplicate, e queste piattaforme rappresentano un nuovo archetipo. Benché nascano da subito come private, assumono per motivi intrinseci al loro business model una posizione di monopolio-oligopolio, con scale di grandezza fino ad ora proprie solo delle istituzioni statali. Dato che tutti e tutte possono accedervi gratuitamente, accettando l’estrazione di dati per una successiva messa a valore (bassa esclusività), e dato che più persone accedono alla rete meglio è (non c’è rivalità nel consumo), secondo la teoria classica questa piattaforma sarebbe addirittura un bene pubblico, cosa che ovviamente non è e non sarà mai. Togliere questi colossi da posizioni di potere così assoluto è necessario, ma finché non ci saremo riusciti, ci toccherà confrontarci con la forma che assumono in questo momento.
A prescindere dalle definizioni, non possiamo ad esempio accettare che una piattaforma con questa rilevanza si dichiari e agisca apertamente contro il popolo del Rojava. A maggior ragione se si riconosce abitualmente il suo carattere non-privato quando, per esempio, i post pubblicati su Facebook sono utilizzati in tribunale come prova di un crimine in quanto affermazioni pubbliche, oppure quando l’attività su Facebook è utilizzata per licenziare con giusta causa. In generale possiamo dire che nessuno spazio privato, soprattutto se con funzioni pubbliche, ha diritto di discriminare e reprimere. Neanche in una discoteca commerciale può essere tollerato che non si facciano entrare stranieri, tanto per capirci.
Di censura si tratta.
Quando lo Stato turco proibisce la condivisione di contenuti pro-Rojava sul proprio territorio, attraverso tutti i mezzi di comunicazione, quindi ovviamente anche su Facebook, risulta più facile parlare di censura. Se lo stesso fatto accade in Italia può risultare più ambiguo perché siamo abituati a pensare la censura come un strumento del dominio statale, o al massimo ecclesiastico.
Tuttavia oggi gli attori che assumono un ruolo di comando sono cambiati, e i dispositivi e le tecniche del dominio sono cambiati di conseguenza. Ci siamo ritrovati sottomessi al nostro smartphone, che “in quanto oggetto devozionale del digitale funziona come il rosario”, entrambi servono “alla sorveglianza e al controllo del singolo su se stesso”, come ci dice Byung Chul Han. Non andiamo più in chiesa, ma accettiamo di sottometterci al rapporto di dominio ogni volta che mettiamo un like (l’equivalente di dire amen), configurando Facebook come “la chiesa, la sinagoga, letteralmente ‘l’adunanza’, globale del digitale”.
Queste caratteristiche, unite alla dipendenza fisica e mentale che crea in chi la usa, rendono questa piattaforma in due sensi il nuovo “oppio dei popoli”: un vera piaga che dobbiamo combattere intelligentemente a livello collettivo, ma dalla quale dobbiamo semplicemente disintossicarci a livello individuale.
Dire che, essendo una multinazionale privata, quello che succede al suo interno non ci riguarda, è estremamente riduttivo. Va detto, anzi, che le modalità di censura in mano a questa superpotenza vanno ben oltre la classica censura verticale. In uno spazio in cui i contenuti sono gerarchizzati, e quindi diffusi in base a un algoritmo con le proprietà di una “black box” della quale non possiamo sapere nulla, il miglior modo per neutralizzare qualcuno non è toglierlo dalla piattaforma, ma semplicemente renderlo meno accessibile nell’enorme quantità di informazioni prodotte. Ora che molte delle pagine sono di nuovo visibili, chi ci dice che appariranno nelle bacheche tanto quanto prima e che invece non saranno, di fatto, invisibili ai più?
Non è normale amministrazione.
Bisogna poi distruggere la retorica usata dalla piattaforma stessa, che spaccia la chiusura della rete di pagine dei movimenti sociali solidali col Rojava come ordinario oscuramento di singoli contenuti problematici e non come atto di censura politica.
Ci sono almeno tre segnali che dimostrano, invece, che di censura si tratta:
Il primo, è che tutte le pagine dello stesso tipo sono state chiuse contemporaneamente con un’azione mirata; non sono stati oscurati i vari post in automatico man mano che venivano pubblicati, si è compiuta un’azione retroattiva. Moltissimi dei post segnalati sono vecchi e comunque sono belle immagini di solidarietà, l’unico odioso “standard” della piattaforma che “violano” è l’essere dalla parte del Rojava.
Il secondo motivo è il momento particolarmente rilevante a livello geo-politico scelto per compiere la repressione, che non è certo casuale. Tutto accade nel momento in cui l’Occidente volta le spalle ai curdi e poco prima del tentativo turco-americano di spacciare una resa incondizionata e senza pietà come un accordo di pace. Ypj e Ypg sono diventati più “terroristi” di prima per l’Occidente e la solidarietà al Rojava è diventato un problema politico con un peso diverso da un giorno all’altro. Contenuti vecchi, quindi, assumono un diverso significato al di là della policy che invece non è cambiata su questo punto dal 2012.
Per ultimo, la riproposizione pretestuosa dell’idea degli opposti estremismi, che mette sullo stesso piano i due gruppi censurati in Italia. Facebook non vuole “estremisti” sulla sua piattaforma, o meglio: usa questa scusa per delegittimare chi vuole escludere, come si fa da sempre. Questa idea è particolarmente in voga in questo periodo, perfino al Parlamento Europeo, ma non per questo rimane meno pericolosa. Non solo rifiutiamo l’accostamento tra la solidarietà al Rojava con il fascismo di CasaPound, Forza Nuova e Vox Italia, ma ricordiamoci anche che la lotta al fascismo si fa dal basso e non si può certo delegare alla benevolenza di una società privata.
Va registrata, però, la differente motivazione usata nei due diversi episodi. Sull’onda del dibattito sull’alt-right americana, il social ha deciso di aumentare il numero di contenuti di incitamento all’odio rimossi, oscurando le pagine di alt-right che incitano all’odio e alla violenza sistematicamente. Nel nostro caso invece il motivo del ban è stato giustificato come “sostegno” a un gruppo terroristico, o meglio sostegno a Ypj e Ypg che sarebbero sostenitori del Pkk, ritenuto da Usa, Europa e Turchia un’organizzazione terroristica. Non so voi, ma questo tipo di argomentazioni mi fanno subito pensare a momenti bui della nostra storia politica, e l’accostamento dei movimenti sociali a gruppi terroristici è una teoria che abbiamo sentito troppe volte in passato e non possiamo assolutamente accettare.
(2) Quello che succede in America
Sullo stato attuale di Facebook
Per capire cosa sta succedendo bisogna fare un passo indietro e dire che è un periodo particolare per Facebook. Negli ultimi mesi ha subito pesanti attacchi su almeno due fronti.
Il primo è quello della Libra, dove diverse defezioni tra i membri del progetto stanno minando alle fondamenta la criptovaluta. Questi passi indietro sono dettati dalle critiche ricevute da più parti che stanno cercando di impedire al colosso di aggirare definitivamente ogni intermediazione nazionale e di fare quello che, per il momento, è facoltà dei soli stati, cioè “stampare valuta”.
Il secondo fronte è una pesante inchiesta antitrust con sostegno bipartisan che si è posta l’obiettivo di rompere il palese monopolio della compagnia, spezzettando tutte le varie app gestite dalla stessa, in un gruppo di aziende più piccole e meno competitive che possano garantire una concorrenza “leale” sul mercato. Sappiamo, invece, che l’obiettivo di Facebook Company era proprio l’opposto: unire Fb, Istagram e Whatsapp in un unico ambiente interconnesso per aumentarne il valore, cosa che ha comunque annunciato di voler fare a breve.
A questi due problemi bisogna poi aggiungere il più grave: sono mesi difficili in borsa e, per alcuni commentatori, i due problemi sopra citati sarebbero presagio di un possibile crollo finanziario. È necessario ricordare che la Borsa americana è in crescita ormai da un bel po’, ma le varie tensioni internazionali stanno avvicinando lo scoppio della prossima bolla, che prima o poi dovrà arrivare, con buona pace di Trump. Le compagnie della Gig Economy, cresciute dal 2008 in modo vertiginoso fino ad arrivare a vette mai raggiunte da nessuno, non sempre ricavano utili direttamente dal loro lavoro; spesso si basano sulla stima del valore che, un domani, potranno avere i dati raccolti.
L’esempio migliore è sicuramente Whatsapp: al momento non ha incassato neanche un dollaro direttamente, è gratis e non ha pubblicità, e quindi resta di fatto, fin dal primo giorno, un buco enorme nel bilancio aziendale. La prospettiva è che, prima o poi, questi dati raccolti vengano utilizzati, ripagando l’enorme investimento. La fiducia in questi guadagni futuri potrebbe, però, crollare da un momento all’altro e uno scenario simile a quello della bolla delle dot-com della fine degli anni ‘90 (però su scala cento a uno), non solo non è da escludere, ma è uno tra i principali motivi che spingono queste stesse aziende a diversificare, investendo in altri settori dello sviluppo tecnologico.
Dalla violazione della privacy alla negazione della libertà di parola.
Un altro problema molto grande è quello relativo alla fiducia degli utenti, incrinato dal grande scandalo di Cambridge Analytics, diventato allo stesso tempo arma di ogni critico, e scusa per non parlare degli altri problemi per la piattaforma stessa. E’ stato contestato a Facebook, dal punto di vista legale, di aver fornito i dati di utenti inconsapevoli per fini non dichiarati. Fondamentalmente un problema di privacy.
Col passare del tempo, però, qualcuno ha fatto notare le problematicità che possono derivare dai post politici ultra-targettizzati, ed è emersa chiaramente la possibilità di manipolare l’opinione pubblica con vere campagne di disinformazione, sempre esistite, ma ora forse ancora più efficaci, soprattutto con sistemi elettorali che prevedono i “grandi elettori” . Fino a ieri, quindi, si parlava, di “Quali” contenuti dovessero essere oscurati sulla piattaforma e non di “Chi” dovesse essere sistematicamente oscurato.
Lo stesso concetto, ormai superato perché inutile, di fake news e quello un po’ migliore di junknews, sono entrambi basati sull’escludere un certo tipo di contenuto e non tanto sulla censura di chi lo crea, anche perché i profili che mettono in piedi questo tipo di campagne sono mezzi creati apposta per la propaganda (computazionale), e le persone che li gestiscono sono informatici pagati apposta per farlo, non si metteranno certo a piangere per un bot bannato. La libertà di parola e il diritto a un’informazione trasparente sono due discorsi sicuramente connessi, ma non del tutto sovrapponibili.
Nell’ultimo periodo, però, sembra esserci stato un salto di livello, un cambio di strategia perché si è passati dall’oscuramento di singoli post all’oscuramento di tutte le pagine di interi gruppi di attivisti politici collegati a qualcosa di “sbagliato”.
ZuckOne cambia strategia: da informatico pasticcione a paladino della libertà
Forse a causa di pressioni e attacchi su tutti i fronti, il colosso ha deciso di cambiare strategia, quanto meno comunicativa. Ci ricordiamo bene le infinite scuse che il CEO ha elargito al Congresso Americano dopo lo scandalo di Cambridge Analytics: “mi dispiace”, “sono mortificato”, “lavoreremo di più”. Nel discorso all’Università di Georgetown, invece, appare chiaro come la posizione pubblica della piattaforma sia cambiata: “abbiamo dato voce a miliardi di persone”, dare questa “Voce è indispensabile per la libertà di parola”, per concludere, dopo aver usato 35 volte la parola “voice”, con “se non siete dalla parte di Facebook, allora siete dalla parte della dittatura cinese”. Una linea molto netta è stata tracciata: o con me o contro di me. Almeno pubblicamente, ZuckOne ha sempre recitato la parte dello scolaro ripreso dalla maestra per la sua condotta sbadata e grossolana. Ora ZuckOne ha deciso di schierare l’opinione pubblica, di fare politica più apertamente e nel vero senso della parola, non solo a livello lobbistico.
Le grandi piattaforme sono tutte emerse con atti di “Disruption”, cioè “quando una tecnologia di rottura si impone su un mercato, sconvolgendolo totalmente, causando un cortocircuito delle regole che lo reggono tradizionalmente, anzi ristrutturando brutalmente alcune modalità d’azione o alcune tipologie di relazione sociale”. Queste persone sono abituate a cambiare il mondo con dei pezzi di codice, non professandolo pubblicamente. Uber per togliere il monopolio delle licenze ai tassisti ha inventato un’app, non ha mica fatto una manifestazione. Emule ha messo in crisi il copyright rendendo di massa un software per lo scambio di file peer to peer, mica fondando un partito. Questo non ha impedito alle istituzioni di reagire successivamente, ma parte del danno era già stato fatto. ZuckOne stavolta ha invece deciso di fare un comizio, e questo potrebbe essere il segnale dell’inizio di una nuova fase.
Benché qualche mese fa siano girate diverse voci su una possibile candidatura di ZuckOne alle prossime elezioni americane, fa comunque senso vederlo parlare con una mimica e un’intonazione molto simili a quelle di Barack Obama, addirittura concludendo il suo discorso con un yes, ”we can bring the world closer together”. Cita Martin Luther King e la sua battaglia per i diritti civili, ma soprattutto rivendica il merito di aver reso possibile la nascita del #metoo, dando voce a milioni di donne. È assurdo che il censore più potente che sia mai nato al mondo, dopo aver messo seriamente a rischio i processi democratici a livello globale, faccia un elogio smielato del primo emendamento della costituzione americana e della libertà di parola. E non lo fa da una città qualsiasi. La scelta di volare dalla California fino alla capitale politica Washington, ci obbliga a contestualizzare questa conferenza nel dibattito politico americano.
Il dibattito americano e la Warren
E qui finalmente arriviamo al casus belli: cosa diavolo ha in testa il nostro ZuckOne? Sicuramente non le pagine di qualche testata giornalistica indipendente italiana, molto più probabilmente qualche tweet di Elizabeth Warren. Tutto è iniziato con la nuova policy della piattaforma, che in vista delle elezioni americane ha deciso di aggiornare (unilateralmente, come sempre) le strategie necessarie a “garantire il regolare svolgimento democratico del voto”. In particolare sono state escluse le pubblicità politiche dalle norme che regolano tutti gli altri contenuti e quindi dal processo automatico di revisione.
Poco dopo essere stata introdotta, la nuova regolamentazione è stata trollata in maniera abbastanza divertente. La candidata democratica ha infatti volutamente pubblicato sul suo profilo, sponsorizzandolo come contenuto politico, una notizia falsa e tendenziosa sullo stesso ZuckOne. In questo caso, paradosso del paradosso, una foto dello stesso Mark che stringe la mano a Trump con una finta descrizione che dà per certo il suo endorsement al presidente in carica.
La provocazione è chiara: non è possibile che a personaggi senza scrupoli come lo stesso Trump siano lasciati sponsorizzare contenuti deliberatamente falsi, col fine esplicito di inquinare il dibattito pubblico durante le elezioni, senza che nessuno possa fare niente.
Bisogna tener presente che il presidente Trump ha speso, da maggio 2018, più di 20 milioni di dollari in pubblicità solo dal suo account ufficiale, fino a 1 milione alla settimana in questi ultimi giorni. Ed è per questo che la senatrice democratica in campagna per le presidenziali ha definito la piattaforma Facebook “a disinformation-for-profit machine”, prendendosela con l’altro milionario senza scrupoli che, per qualche soldo in più, accetta le menzogne sul suo social, perfino quelle su se stesso.
Ma come dimostra questo accenno di repressione che abbiamo sperimentato sulla nostra pelle, il problema non è solo il controllo delle junk news, nè qualche milione in più di pubblicità; il problema, tra gli altri, è la stessa “libertà d’espressione”.
(3) Cosa possiamo fare?
Identificare la controparte
Quindi, un attivista si sveglia una mattina in Italia e scopre di essere stato censurato. Se idealmente l’attivista volesse lanciare un sasso contro chi lo ha censurato, dovrebbe avere la forza di un ciclope e un masso molto grande per arrivare a destinazione dall’altra parte dell’oceano. E questo è uno dei problemi della contemporaneità, nulla di particolarmente nuovo. È necessario però identificare accuratamente la controparte per poter reagire a questo atto ostile.
Di sicuro il nemico non sono gli algoritmi in generale. Non possiamo dimostrarci forti con un ammasso di numeri, che anche se chiamati “intelligenti” rimarranno sempre deboli strumenti in mano a chi li usa. Sia chiaro: la posizione che predica l’abbandono dell’utilizzo delle macchine lascia il tempo che trova. Dobbiamo riappropriarci nel modo più completo possibile di questi mezzi per non esserne sfruttati, dobbiamo gioire dei benefici che ne vengono in barba a chi vorrebbe usarli contro di noi. Comunicare gratis con tutt*, ma veramente gratis, senza che mi vengono estratti dati per rivenderli a terzi, è sicuramente qualcosa che dobbiamo rivendicare come un diritto e a cui non dobbiamo rinunciare per nessun motivo.
Non si può neanche prendersela (più di quanto non stiamo già facendo) con il governo turco. Erdogan ha scelto la guerra, probabilmente ha addirittura usato armi chimiche contro la popolazione civile curda: possiamo stupirci che abbia segnalato in massa le pagine web a lui contrarie, allargando fino a noi i confini di una guerra che vede già coinvolti gli eserciti di mezzo mondo? Cosa possiamo fare di più che odiarlo come si odia un nemico in guerra che uccide i tuoi fratelli e le tue sorelle?
In un mondo globalizzato e con problemi globali non possiamo neanche fare troppo affidamento sul nostro staterello-nazione. Ogni tanto si prova anche solo a far pagare delle tasse a queste aziende, cercando di “recuperare” fiscalmente un po’ della ricchezza che stanno accumulando, ma non è possibile farlo solo con pressioni sui singoli stati (non americani), anche se queste, qualche volta, vanno a buon fine, come si evince dal caso di Google in Francia in cui una buona iniziativa locale è risultata insignificante quando si scontra con poteri sovranazionali. Un problema che coinvolge la libertà di parola di miliardi di persone non sarà mai risolto dagli attivisti di un piccolo staterello di qualche decina di milioni di persone.
Il nostro avversario, quindi, non può essere che lui: ZuckOne, uno tra gli uomini più ambiziosi e potenti del pianeta, il diretto responsabile della scrittura e dell’applicazione delle leggi dalla sua piattaforma. Padre e padrone nel più classico dei sensi: se la fa e se la canta. Addirittura adesso sta per lanciare un proprio board di “esperti” con “diverse sensibilità” che si occuperanno sistematicamente di censurare i contenuti della piattaforma. Anche dall’Università di Washington ci ricorda che finalmente potremo chiedere conto a qualcuno dei nostri contenuti censurati. Si dimentica di dire che in realtà questo gruppo di “giudici” saranno semplicemente un enorme specchio per le allodole. Non essendo indipendenti, né eletti democraticamente, né in generale espressione della società che si arrogano il compito di controllare, riprodurranno sempre la logica di chi li paga. Non si possono “assumere giudici indipendenti” è un ossimoro, soprattutto se si sta parlando della libertà di parola di metà del pianeta.
Di fatto, quello che originariamente era nato come un “open field” sta per prendere le sembianze, anche a livello di discorso pubblico (ma lo è già di fatto in gran parte), di un controllo feudale dell’infosfera con conseguenze sulla libertà di parola. La lotta per il comune, contro le enclosures, continua, anche se i “fields” digitali vengono creati e non sono già dati dalla natura come i famosi boschi, rendendo necessario aggiungere l’aggettivo Free oltre a quello di Open nella descrizione di cosa vogliamo difendere.
Ricordiamocelo anche nel prossimo futuro: la feudalizzazione del Comune, nella forma di un tribunale privato, è il problema che ci troveremo ad affrontare da qui in avanti, non possiamo ignorarlo. E non sarà facile spuntarla, come non lo è stato ogni volta che il capitale ha cercato di sussumere parti della società. Ma, per citare la conclusione del discorso del nostro detrattore: “vogliamo davvero dire addio al diritto di pubblica espressione?”.
Inserire la controparte in un discorso complessivo.
Avere chiari i responsabili e le parti coinvolte in un atto di censura specifica, però, non ci può bastare per elaborare una contro-narrazione che si ponga la radicale trasformazione del presente. Bisogna inserire queste azioni in un discorso complessivo, che vada oltre le semplificazioni e i feticci, come potrebbe diventare la figura di ZuckOne. Anche analizzando tutte le 561 fonti di critica a Facebook raccolte su Wikipedia non avremmo un quadro completo del problema. Tante cose andrebbero dette, tante sfaccettature del capitalismo del mondo digitale sono state criticate e altre bisognerà criticarne. Mi limito a citare due chiavi di lettura per me fondamentali: la forma che la privatizzazione del comune ha preso nell’ultimo periodo (le piattaforme) e il fine ultimo, oltre al profitto, a cui questo sistema si sta indirizzando (la sorveglianza).
Il presupposto ormai chiaro è che la Digital Economy vede come materia prima privilegiata i Big Data. Per risolvere la crisi della sovrapproduzione in un mondo con libera circolazione di capitali, l’infrastruttura tecnologica Internet, e i dati che ne derivano, sono fondamentali per rendere efficienti le varie fasi produttive.
Il platform capitalism, o capitalismo delle piattaforme, si basa sulla competizione in un mercato globale, che per motivi intrinsechi tende alla creazione di monopoli o di oligopoli con dimensioni mai viste prima. Interessante notare che ci si riferisca al capitalismo delle piattaforme sia quando si parla di piattaforme social come Facebook, sia quando ci si riferisce ai piattaforme della logistica come Amazon. Spesso si parla di GAFA, mettendo insieme le principali aziende insieme (e in generale le varie stat-up che ne vengono inglobate), delineando un’infrastruttura globale con diverse facce, ma tutte intimamente connesse. Utilizzare questa chiave di lettura ci porta ad allargare il nostro discorso dalla libertà di parola alle lotte della logistica, dal nuovo sottoproletariato cognitivo, fino ad arrivare alle grandi opere inutili (segno tangibile dell’infrastruttura complessiva) e alla devastazione ambientale che ne deriva.
Secondo problema ancora non molto visibile, ma centrale, è quello del capitalismo della sorveglianza. La sorveglianza spacciata per sicurezza è una tra le migliori scuse per la raccolta dati indiscriminata, ma soprattutto la materia prima con cui viene costruito il panottico digitale in cui viviamo. La censura verticale, come quella subita dai solidali con il Rojava, è in realtà una piccola parte del controllo esercitato dalle piattaforme commerciali. Il neoliberismo è ormai in grado di sfruttare la libertà stessa per raggiungere il massimo rendimento, trasformando lo sfruttamento in autosfruttamento, trasformandoci cioè, in “imprenditori di noi stessi”.
Con la stessa logica il neoliberismo trasforma la libertà di comunicazione illimitata in controllo e sorveglianza totale. Il “denudamento volontario” e la “trasparenza pornografica” a cui siamo costantemente sottoposti sui social, altro non è che un modo per appaltare il lavoro del carceriere del panottico ai detenuti stessi. “La comunicazione coincide interamente con il controllo. Ognuno è il panottico di se stesso” ci dice ancora Byung-Chul Han, intendendo che il controllo non arriva da qualcuno di specifico, ma dal livellamento verso il conformismo a cui sono soggette tutte le nostre esternazioni personali, quando condivise con il mondo intero. Una “sorveglianza intrinseca” al nuovo panottico si va quindi delineando, prima ancora che arrivi la “sorveglianza estrinseca” dell’atto di censura vero e proprio attuato della piattaforma.
Manipolando questo ambiente sociale e la percezione dell’idea di giusto o sbagliato che vi si crea, è possibile addirittura orientare un comportamento futuro (in senso psicopolitico), e non solo punirne uno passato, come avviene con la censura verticale. In prospettiva comunque, questo tipo di controllo diventerà sempre più predominante, forse arrivando addirittura a diventare la contraddizione principale di un futuro prossimo. Prima o poi dovremo occuparcene.
“Fotti la censura!” Stare sempre “dentro e contro”.
Al di là della visione complessiva e dei possibili sviluppi che potrebbe avere, bisogna identificare delle pratiche semplici e riproducibili da tutt* che permettano di rispondere efficacemente agli attacchi subiti, evidenziando la contraddizione che ne deriva.
Prima di tutto bisogna chiarirsi su un punto: Facebook non è l’unico modo per comunicare con tante persone e noi lì sopra comunichiamo a malapena con noi stessi e la nostra filter bubble. Però rimane un un media mainstream, al pari di giornali e tv, e chiunque abbia una vocazione maggioritaria deve porsi l’obiettivo di attraversarlo in modo tattico e conflittuale, esercitando un rapporto di forza in grado di spostare il dibattito dominante sulle proprie parole d’ordine (senza per questo confondere lo scopo dei volantini con quello delle conferenze stampa).
Dato che noi spesso tendiamo a pensare questo social come pilastro della nostra comunicazione a tutto tondo, rischiamo di mettere a repentaglio la nostra stessa possibilità di fare politica.
Ripartiamo quindi da una necessaria autocritica: dove sono finiti i nostri potentissimi strumenti di informazione indipendente e autonoma che hanno caratterizzato la storia dei movimenti sociali fino a qualche decennio fa? E dato che non sono andati da nessuna parte, semplicemente faticano ad aggiornarsi, come mai deleghiamo la stragrande maggioranza delle interazioni con i nostri contenuti a una piattaforma commerciale che di indipendente non ha proprio nulla (oltre ad aver recentemente deciso di bannarci)? Ripartire da una buona dose di autodeterminazione comunicativa è fondamentale ora più che mai: l’irrobustimento di esperienze di social media più sani come quelli di Fediverso e l’aggiornamento di strumenti che già possediamo come radio e testate indipendenti sono una condizione sine qua non allo stare su piattaforme commerciali.
Allo stesso tempo dobbiamo essere consapevoli che questo tipo di comunicazione, da sola, difficilmente ci permetterà di arrivare allo stesso bacino potenziale raggiungibile con i social mainstream . Rinunciare a comunicare con qualcun* su Facebook, se non altro per dirgli di venire su Mastodon, non è un’opzione accettabile per quello che mi riguarda. Ritengo che sia necessario stare (anche, ma non solo!) dentro questo tipo di piattaforme, e comunque contro la loro logica.
Sicuramente non possiamo permetterci di starci in modo poco consapevole, come più o meno abbiamo fatto fino al ban dell’altro giorno. Non me ne andrò da Facebook perché sono stato bannato, penso che questo potrebbe essere il miglior motivo per farmi, al contrario, centinaia di nuovi account fasulli per non farmi identificare e aggirare il blocco, invadendo il social con la faccia di Öcalan.
La storia della censura e quella della lotta alla censura sono molto lunghe e stratificate. Voglio citare, come suggestione e provocazione, solo due semplici esempi da cui potremmo prendere spunto: il gioco del riocontra e Pepe the Frog.
Il primo nasce dallo slang milanese dei paninari, ma è tuttora molto in voga tra i ragazzini per parlare in codice, il secondo è nato più recentemente e ha come suo massimo apice essere diventato la principale arma della guerra memetica dall’alt-right durante la campagna per Trump nel 2016. Avrei potuto scegliere un esempio positivo come Bread Tube, ma la sostanza è la stessa.
Il primo esempio dice una cosa veramente semplice: se ti stanno sorvegliando, eludi la sorveglianza criptando quello che dici. Non ha tanto importanza se con l’alfabeto farfallino o con il codice Enigma, l’importante è non farsi beccare da chi controlla e farsi capire da chi vogliamo noi. Se l’algoritmo di Facebook, oppure gli informatici turchi, usano delle strategie per individuarci e bannarci, troviamo delle modalità per aggirare questa censura: friggiamo le immagini (e i meme) di Erdogan, storpiamo le parole, affinché non riescano a trovarci subito, tutti in una volta e solo facendo una semplice ricerca. Senza accettare neanche per un secondo la repressione della solidarietà ai curdi, rispondiamo alla domanda: come diffondiamo controinformazione sulla Siria sui social mainstream senza essere bannati?
Per farlo, però, non possiamo pensare che basti un trucchetto solo, uguale dagli anni ‘80 fino ad oggi come per il riocontra. Oltre alle conoscenze tecniche sull’algoritmo, occorre capire come funzionano le narrazioni contemporanee e come si diffondono.
Pepe the Frog non è nato come simbolo nazista, tutt’altro, ma è stato colonizzato dal continuo, sistematico e massificato riutilizzo di quel simbolo da parte di neo-nazisti, fino alla egemonizzazione del suo significato. Gli universi narrativi di oggi si delineano come non-lineari, a-sincronici, trans-mediali e possono essere pensati come open world. Ogni soggetto che interagisce con la narrazione non si limita a subirla passivamente, ma ne diventa parte attiva, riscrivendone o ampliandone delle parti (in ogni direzione possibile), indipendentemente dalla medium tramite il quale ne è venuto in contatto, senza contare che la narrazione sia partita ieri o anni prima, iniziando indifferentemente a produrre materiale sull’inizio o sulla fine della storia. Dobbiamo creare comunità in grado di utilizzare anche questi tipi di comunicazione se vogliamo essere efficaci nel cyberspazio.
Conclusioni
Lo spazio occupato da Facebook, per le dimensioni e la rilevanza pubblica che ha assunto, non ci permettono di ignorare gli odiosi attacchi di censura che abbiamo subito.
Non è detto che il monopolio-oligopolio di queste grandi piattaforme durerà per sempre, anzi ci sono alcune questioni che potrebbero far presagire il contrario: banalmente altri poteri costituiti si stanno accorgendo dei problemi creati, e dell’impossibilità comune di mettervi un freno con facilità. L’irrigidimento istituzionale bipartisan che ne è conseguito, potrebbe aver determinato un cambio di strategia della stessa piattaforma verso la posizione di attore politico a tutti gli effetti e non solo in quanto lobby.
Bisogna quindi identificare nella compagnia una controparte, in quanto nuovo detentore del potere costituito. La battaglia a questo tipo di soggetti può permetterci di arrivare al cuore di alcune delle contraddizioni più rilevanti della contemporaneità come le nuove forme del capitalismo e il sistema di sorveglianza che ne consegue.
Il prerequisito a tutto questo è la necessità di una completa e rinnovata autonomia comunicativa per poter affrontare efficacemente una difficile guerriglia sul terreno dei social media di massa.
Ti rendi conto del valore delle cose quando te le tolgono. In questo caso ci siamo resi conto che parte della nostra comunicazione, in mano a ZuckOne, non vale molto.
Da qualche parte abbiamo già gli strumenti per reagire, e da qualche parte bisognava pur ripartire, ma ora tocca dare un’ACCELerata.
Post Scriptum
Cari compangn*, ho scritto tutte queste cose pseudo-incomprensibili per provare a dare uno sguardo complessivo a una faccenda molto intricata, scusate la lunghezza, cercherò di spezzettare il discorso per renderlo più digeribile in altri canali, ma dovevo partire da qui. Non mi resta che affidarmi a tutti “i vostri commenti e alle vostre interazioni”, per capire le tante cose che sicuramente sto sbagliando e quelle ancora più numerose a cui non ho minimamente pensato e a cui dobbiamo pensare insieme. Dopo tutto ‘sto parlare di digitale, non mi resta che tornare alle vecchie care pratiche, auspicando un’assemblea al più presto, per discutere tutt* insieme su questo mondo che cambia velocemente. Essendo un problema di tutt*, più sarà grande e interconnessa la Rete che costruiremo intorno a questa tema, più sarà possibile “Socializzare saperi, senza fondare poteri”
A cura di Data Error (Salvatore).
“Per la strada c’è rabbia, qualcosa si muove, qualcosa di violento, qualcosa di irruento, qualcosa di cui faccio parte, e di cui fa parte anche il mio modo di parlare, non mi si deve bloccare…con questa merda di segnale, Art. 31 trasgredire nel dire, Art.31 due parole per agire contro il sistema d’immagazzinazione di pensiero”
“Fotti la censura!”, Articolo 31.Strade di Città, 1993.
Riferimenti esterni
- a) Materiale sui fatti di cronaca.
Comunicati sulla censura:
– Di Globalproject: https://www.globalproject.info/it/in_movimento/la-censura-turca-di-facebook-si-abbatte-su-ya-basta-edi-bese-e-global-project/22304
– Congiunto con le altre testate di movimento: https://www.globalproject.info/it/in_movimento/la-censura-aiuta-la-guerra-di-erdoan/22307
– Del colletivo bida: https://bida.im/press.html#Comunicato_18_10_2019
La conferenza di ZuckOne e il dibattito americano:
– Conferenza di ZuckOne all’Università di Georgetown, integrale: https://www.youtube.com/watch?v=2MTpd7YOnyU
– La nuova policy di Facebook: https://newsroom.fb.com/news/2019/08/updates-to-ads-about-social-issues-elections-or-politics-in-the-us/
– I tweet di Warren contro ZuckOne: https://twitter.com/ewarren/status/1183019900178223104?s=20
– Spesa in pubblicità politica su Facebook di Trump: https://www.facebook.com/ads/library/?active_status=all&ad_type=political_and_issue_ads&coun try=US&view_all_page_id=153080620724
– Voci su una possibile candidatura di ZuckOne alle presidenziali: https://nypost.com/2017/08/06/mark-zuckerberg-probably-isnt-running-for-president/
– Le critiche a Facebook raccolte su Wikipedia: https://en.wikipedia.org/wiki/Criticism_of_Facebook
Altri problemi della Facebook Company:
– Libra, cos’è? https://www.businessinsider.com/libra-senators-ask-why-facebook-can-be-trusted-cryptocurrency
– Libra, che problemi sta avendo? https://www.repubblica.it/tecnologia/social-network/2019/10/14/news/libra_oggi_il_varo_della_criptovaluta_senza_visa_mastercar-d_ebay_e_altri_big-238512739/
– Antitrust contro Facebbok: https://www.theguardian.com/technology/2019/sep/06/facebook-google-antitrust-privacy-investigations-us
– Google e l’attacco fallito dai francesi: https://open-letter-october-2019.frama.site/
- b) Riferimenti bibliografici
– “From Fake News to Junk News”, Tommaso Venturini: http://www.tommasoventurini.it/wp/wp-content/uploads/2018/10/Venturini_FromFakeToJunkNews
– “The Computational Propaganda Research Project”, Oxford University. Qui il sito del progetto: https://comprop.oii.ox.ac.uk/
– “The black box society”, Frank Pasquale: https://raley.english.ucsb.edu/wp-content/Engl800/Pasquale-blackbox.pdf
– “Managing the commons in the knowledge economy”, Carlo Vercellone e altri: https://dcentproject.eu/wp-content/uploads/2015/07/D3.2-complete-ENG-v2.pdf
– “Towards an anti-fascist AI”, Dan McQuillan: http://danmcquillan.io/ai_and_antifascism.html
– “Infrastrutture antagonIste e autorganIzzazIone medIatIca” Stefania Milan: http://storieinmovimento.org/wp-content/uploads/2019/04/Zap45_17-Interventi.pdf
– “Open non è Free”, Ippolita: https://not.neroeditions.com/open-non-free/?format=pdf
– “Tecnologie del dominio: lessico minimo di auto-difesa digitale”, Ippolita: https://ia800106.us.archive.org/22/items/tecnologiedeldom0000ippo/tecnologiedeldom0000ippo.pdf
– “Platform Capitalism”, Matthew Cole: http://salvage.zone/online-exclusive/platform-capitalism-and-value-form/
– “Il capitalismo delle piattaforme”, Benedetto Vecchi. Qui un suo approfondimento: http://www.euronomade.info/?p=8257
– “Il capitalismo di sorveglianza”, Géraldine Delacroix. Qui una recensione: http://effimera.org/capitalismo-sorveglianza-geraldine-delacroix/
– “Psicopolitica”, Byung-Chul Han. Qui due recensioni: https://zapgina.wordpress.com/2018/01/02/psicopolitica/,https://www.theguardian.com/books/2017/dec/30/psychopolitics-neolberalism-new-technologies-b yung-chul-han-review
– “The Filter Bubble: How the New Personalized Web Is Changing What We Read and How We Think”, Eli Pariser. Qui raccontato a ted talks: https://www.ted.com/talks/eli_pariser_beware_online_filter_bubbles
– “Mondi narrativi e storie future. Modelli di espansione seriale tra pulp magazines e franchise transmediali”, Paolo Bertetti: https://www.academia.edu/35366266/Mondi_narrativi_e_storie_future._Modelli_di_espansione_s eriale_tra_pulp_magazines_e_fr-anchise_transmediali
– “La guerra dei meme”, Alessandro Lolli. Qui intervistato sul libro: https://www.esquire.com/it/news/attualita/a13526561/internet-guerra-meme/
– “Accelerate Manifesto”, Alex Williams and Nick Srnicek: http://criticallegalthinking.com/2013/05/14/accelerate-manifesto-for-an-accelerationist-politics/
- c) Just for Fun
– Conferenza di ZuckOne all’Università di Georgetown, solo le 35 volte in cui dice la parola “Voice”: https://www.youtube.com/watch?v=NYXeoGKHa8Y
– il riocontra spiegato da Abatantuno: https://www.youtube.com/watch?v=vMnBc8geydI
– il riocontra nel rap italiano di oggi: https://www.billboard.it/musica/hiphop/le-regole-del-riocontra/2017/11/191339/
– Cos’è BreadTube? https://theanarchistlibrary.org/library/petr-kropotkin-the-conquest-of-bread
– Dove trovo dei contenuti BreadTube? https://www.reddit.com/r/BreadTube/, https://www.youtube.com/watch?v=SwxLhJ48-DI,
– Articolo 31 “fotti la censura”: https://www.youtube.com/watch?v=Ewsy8ghieJM
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