“It’s a sin” – Un viaggio nel grande rimosso degli anni Ottanta
A pochi mesi da “SANPA” ecco arrivare come una bomba una nuova serie televisiva ad alzare il velo sul secondo grande rimosso degli anni Ottanta.
Se “SANPA” ci costringeva a fare i conti con la rimozione dell’eroina “It’s a sin” ci mette di fronte alla gigantesca rimozione in corso dell’AIDS che proprio negli anni Ottanta esplose in modo drammatico travolgendo le vite di decine di migliaia di esseri umani e delle loro famiglie.
La serie, tanto per cambiare, è una produzione inglese creata dal brillante Russell T Davies. Ed è l’ulteriore conferma che gli inglesi, nel costruire delle narrazioni che intrecciano storia collettiva e vicende individuali, hanno una marcia in più e una capacità artistica che manca a tanti altri paesi.
La miniserie di cinque puntate, prodotta da Channel 4, non ha avuto, va detto per onestà, una gestazione facile, a dimostrazione che il tema dell’infezione da HIV è ancora un gigantesco tabù, ma alla fine è riuscita a venire alla luce e in Italia dovrebbe andare in onda dal primo giugno su Starz Play.
“It’s a sin” racconta la vicenda di un gruppo di giovani inglesi nel decennio 1981-1991, un decennio caratterizzato dal governo conservatore della Iron Lady Margaret Thatcher e dall’esplodere dell’epidemia di AIDS.
I tre protagonisti assoluti sono Ritchie, aspirante attore proveniente dall’isola di Wright, Roscoe un esuberante barista di origini nigeriane e Colin un timido apprendista sarto gallese.
Tutti e tre sono omosessuali e tutti e tre fuggono, ognuno a modo suo, o da famiglie oppressive o da contesti sociali stantii e opprimenti. Tutti e tra si rifugiano nella scintillante Londra dei primi anni Ottanta e vanno a vivere in un appartamento in comune. E qui incontrano la quarta grande protagonista, Jill Baxter, anche lei aspirante attrice, che, unica etero, sarà in qualche modo la figura unificante per il gruppo.
In realtà però, il vero protagonista della seria è un altro. E non è un essere umano bensì la malattia: l’AIDS.
Per chi è cresciuto negli anni Ottanta si tratta di un vero e proprio incubo che va, non a caso, a braccetto con l’incubo eroina. E basta poco per risvegliare ricordi sopiti e rimossi.
Il modo in cui la malattia viene affrontata è in tutto e per tutto simile a quello con cui abbiamo affrontato la grande pandemia di Covid:
-ignoranza
-sottovalutazione
-panico
-rimozione
Questo la dice lunga su come, nonostante gli sviluppi tecnologici, l’essere umano, nei suoi istinti fondamentali, resti sempre uguale a se stesso scivolando costantemente negli stessi errori commessi in passato. Come in un tragico e prevedibile eterno ritorno dell’uguale.
E’ impressionante vedere come le prime notizie sull’AIDS in arrivo dagli Stati Uniti venissero minimizzate o derise.
E come, una volta diventato chiaro che la malattia era arrivata in Europa, scattasse il potentissimo meccanismo di difesa psicologico: “tanto non capiterà a me”.
Ma è ancora più straziante vedere amici o famiglie totalmente impreparati a un dramma del genere trovarsi catapultati a dover gestire (o provare a farlo) una situazione del genere in totale solitudine quando i primi amici o figli si ammalavano (da qui la frase ricorrente riferita di volta in volta al malato del momento: “E’ tornato a casa”). Assistiamo a scene raccapriccianti che ci portano subito alla mente i primi giorni del Covid di persone che entrano nelle case dei malati indossando guanti di plastica per lavare le stoviglie e improvvisati fazzoletti per coprirsi il volto. I primi malati rinchiusi a chiave in totale solitudine in grandi stanzoni in quanto socialmente pericolosi. Gli oggetti personali dei primi morti bruciati in giardino in roghi che ci portano alla memoria la peste di Manzoni o quella del 1348.
E assistiamo appunto alla tragedia dei gay, doppiamente additati per il loro semplice essere omosessuali e per essere i nuovi appestati (se non addirittura untori). E se questo avveniva in una paese tendenzialmente avanzato dal punto di vista dei diritti civili come il Regno Unito dalle antiche tradizioni liberali, non osiamo neanche pensare quale fosse la situazione nei paesi latini.
Nella narrazione vince il taglio intimistico sulle storie dei protagonisti. Tutto viene analizzato dal punto di vista individuale e non c’è un’eccessiva attenzione sulle tragiche mancanze di chi governava il paese all’epoca. Queste vengono accennate. E quando emergono raccontano di miopia, ottusità e discriminazione.
Bello notare come, personaggi tra loro così diversi, nella bufera degli anni Ottanta, fuggano delle loro famiglie per costruire una nuova, particolare famiglia che è quella dell’appartamento in condivisione in cui abito. A dimostrazione che una famiglia…si può anche scegliere.
Se possiamo sollevare una nota critica, che non inficia per nulla la qualità dell’opera, si sarebbe probabilmente potuto approfondire meglio la figura di Jill, vero e proprio “motore immobile” delle vicende dei protagonisti e vera e propria eroina che con coraggio, si troverà a prendersi cura dei propri amici quando questi inizieranno a cadere come mosche falcidiati dalla malattia.
Da vedere.
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