J’accuse ovvero l’impopolarità delle cause giuste
“Che Dreyfus abbia tradito, io lo deduco dalla sua razza” (Maurice Barrès)
Immaginatevi una gigantesca piazza d’armi.
Immaginatevi 4.000 soldati schierati sull’attenti.
Immaginatevi 20.000 persone assiepate ogni dove che premono appena fuori dalla piazza d’armi.
Immaginatevi il gelo di gennaio.
Immaginatevi di essere il bersaglio anche solo degli occhi di tutti i presenti.
Immaginatevi di essere totalmente e completamente soli.
Questo è la magistrale scena di apertura dell’ultimo film di Polanski “J’accuse”, malamente tradotto in italiano con “L’ufficiale e la spia”.
L’uomo solo, il capro espiatorio, la vittima della gogna pubblica è Alfred Dreyfus, ufficiale dell‘Armée ingiustamente accusato e condannato per tradimento e intelligenza con il nemico. E il nemico è IL nemico per antonomasia: gli odiati prussiani.
Per comprendere a fondo la vicenda che scosse profondamente la società francese di fine Ottocento bisogna tornare indietro di 25 anni, fino all’umiliante disfatta francese durante la guerra contro la Prussia del 1870-71. Una guerra che, oltre a essere costata ai francesi una sonora sconfitta e la perdita dell’Alsazia, portò all’abdicazione di Napoleone III, alla Repubblica e alla Comune di Parigi, repressa nel sangue e che avrebbe agitato i sonni della Francia conservatrice per decenni.
Le conseguenza per la società francese furono pesanti e si potrebbe tracciare un perfetto parallelo tra le condizioni della Francia sconfitta di fine Ottocento e della Germania uscita devastata dalla Prima Guerra Mondiale.
Sogni di rivincita (il famoso revanchismo), caccia al capro espiatorio, nazionalismo in vertiginosa ascesa, xenofobia e razzismo dilaganti. Questi i frutti avvelenati del disastro del 1870-71.
La vittima è Alfred Dreyfus. Non a caso alsaziano. Non a caso ebreo. Chi poteva incarnare un migliore agnello sacrificale per giustificare la sconfitta di un ebreo nato in un territorio da poco ceduto ai tedeschi?
In realtà, se si va a scavare, lo stesso Dreyfus era un ardente nazionalista che sognava la vendetta contro la Germania e il ritorno dell’Alsazia a Parigi. Ma i tempi erano quelli che erano…
Il film racconta. per più di due ore e senza cedimenti di tensione narrativa, il clima sociale e politico della Francia di quel periodo. In quanto film storico, tutto è costantemente al posto giusto e le ricostruzioni perfettamente credibili. Ci viene narrato un inizio di Belle Époque tutt’altro che gioioso e spensierato. Il clima è cupo. La fotografia plumbea. Onnipresenti i baffi e i cappelli che all’epoca ogni uomo portava. E pochissime figure femminili, con ruoli secondari di mogli affrante o amanti focose.
Il film racconta la vicenda di Georges Picquart, ufficiale francese messo a capo dei servizi segreti militari subito dopo l’Affaire Dreyfus che, indagando su un nuovo caso di spionaggio, si rende conto dell’innocenza dell’ufficiale alsaziano.
Picquart è un soldato tutto d’un pezzo. Nazionalista e devoto all’esercito. Poca o nulla simpatia per gli ebrei. Ma è anche una persona corretta che, capendo la macchinazione in corso, tenta di porvi rimedio incorrendo nell’ira dell’esercito e di gran parte della società francese.
L’esercito, pur rendendosi conto fin quasi da subito dell’innocenza di Dreyfus, pur di preservare se stesso e la propria credibilità rinuncia a perseguire la vera spia e traditore.
Solo la discesa in campo di Émile Zola, il grande (e coraggioso) romanziere francese che con il suo famoso “J’accuse” pubblicato su “L’Aurore” inizierà a spostare l’ago della bilancia. Ma sarà un percorso a ostacoli durissimo perché va detto, la maggioranza della società francese era colpevolista e, come quasi sempre capita a quelle che col senno di poi vengono ritenute cause giuste, all’epoca dei fatti a difendere Dreyfus era un’esigua minoranza.
È giusto ricordare, e Polanski non manca al suo dovere, che Zola a seguito del suo articolo fu processato e condannato. E che copie e copie de “L’Aurore” furono bruciate in piazza da fanatici nazionalisti e antisemiti. E lo fa attraverso scene che ci ricordano da vicino la Germania degli anni Trenta, con tanto di scritte “Mort aux juifs” (morte agli ebrei) e vetrine distrutte.
In alcune sue parti, il film, specialmente nei dialoghi tra gli ufficiali dell’Armée, fa dei chiari rimandi al celebre “Orizzonti di gloria” di Kubrick.
Ma perché Polanski ha scelto di riportare alla luce proprio questa storia? In definitiva, la pellicola sembra voler creare un collegamento diretto con l’attuale, regalandoci una carrellata di bestialità tornate oggi di moda, ma, come ci dimostra il regista, già presenti più di un secolo fa. “La Francia non è più la stessa con tutti questi stranieri!”. “È colpa dell’internazionale ebraica!”. “Lo spirito cosmopolita sta attentando alle radici della Nazione”. Vi suona familiare?
Un film consigliato a pochi giorni dall’anniversario della strage di piazza Fontana e della montatura contro gli anarchici, altro capro espiatorio spesso e volentieri utilizzato dai vari poteri di turno.
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