La partita

Uno spartiacque tra due epoche.

Dietro ogni uomo si nasconde una storia.

Con questa frase si potrebbe riassumere il libro “La partita” (Piero Trellini, Mondadori) indiscusso successo della letteratura sportiva (e non solo) di quest’estate 2019. Dobbiamo confessare che se non fosse per la foto in copertina il titolo di questo libro “La partita” ci avrebbe tratto in inganno. Sì perché la partita con la P maiuscola, per moltissimi, che l’abbiano vissuta o no poco importa, è la celebre Italia-Germania 4-3 del 17 giugno 1970. Semifinale del Mondiale del Messico giocata allo stadio Azteca di Città del Messico. Boninsegna, Schnellinger, Müller (due reti) Burgnich, Riva e Rivera. Questi i marcatori di quella epica sfida.

E invece qui si parla di una partita disputata in Spagna 12 anni dopo e probabilmente altrettanto importante nell’immaginario popolare. Stiamo parlando di Italia-Brasile 3-2 del 5 luglio ’82 giocata al Sarrià di Barcellona.

https://www.youtube.com/watch?v=fser8knw8Ws

La prima cosa da dire è che il libro, nonostante le sue 600 pagine e più, ci è piaciuto.

Trellini è capace di scrivere un grande romanzo corale, un complesso mosaico che alla fine, vede andare al posto giusto le decine e decine di pezzi che lo compongono. Un’opera di valore come un altro libro a sfondo calcistico di qualche anno fa, “L’ultimo rigore di Farouk”, che partendo dall’ultima avventura mondiale della Yugoslavia unita a Italia ’90 ci narra la morte di un Paese e la feroce guerra civile che ne è seguita, portando vicini di casa che per decenni avevano convissuto a scannarsi senza pietà.

Ma torniamo indietro nel tempo. Il 1982 è un anno particolare. Sia per il mondo che per l’Italia.

E’ un anno di guerre: quella delle Falkland che vede contrapporsi l’Inghilterra della Thatcher all’Argentina dei generali per il possesso di alcune isolette nell’Atlantico, quella del Libano con l’invasione israeliana che condurrà diritta al massacro di Sabra e Shatila e quella in Afghanistan che si trascina da ormai due anni con gli occupanti sovietici impantanati dalla guerriglia dei mujahaedin.

Per l’Italia è un anno che si potrebbe definire “giro di boa”. Unanimemente ritenuto l’ ultimo anno della lotta armata con la liberazione del generale Dozier nelle mani delle Brigate Rosse in gennaio e le centinaia di arresti seguiti alle confessioni del brigatista Savasta, anche a seguito di torture. Il Paese è scosso da vere e proprie guerre scatenate dal crimine organizzato e non è ancora uscito dall’affare P2. Si sta per entrare diritti nei fatui anni Ottanta. Quelli dei nani e delle ballerine.

Tre sono le categorie di personaggi che primeggiano nella calda estate spagnola dell’82 raccontata da Trellini: gli uomini di potere, gli uomini di penna e gli  uomini di sport.

Queste tre categorie si incontrano e scontrano per tutto il libro, che è attraversato dalle vicende di decine di figure secondarie, ma il cui contributo è fondamentale nella costruzione di una narrazione epica.

Tra gli uomini di potere possiamo trovare gli Havelange e i Blatter veri deus ex machina delle federazioni calcistiche che, se da un lato hanno “democratizzato” il calcio permettendo l’accesso al Mondiale delle squadre di continenti diversi dalla vecchia Europa e dal Sudamerica, dall’altro resteranno negli annali anche per torbidi casi di corruzione. Con loro le figure della famiglia Dassler, i fondatori dell’Adidas, che hanno dato un contributo fondamentale alla trasformazione del calcio in una gallina dalle uova d’oro. E poi gli italiani, tra cui Artemio Franchi e Sandro Pertini.

Ci sono poi gli uomini di penna, per un lungo periodo contrapposti a quelli di sport. Sì, perché i rapporti tra la Nazionale e i media, prima e durante il Mondiale furono tesissimi. Quasi tutta la stampa derideva e attaccava spietatamente la squadra di Bearzot accusato di aver lasciato a casa i Beccalossi e i Pruzzo e di praticare un calcio vecchio. La situazione era talmente tesa che i calciatori, per la prima volta, decisero il silenzio stampa. Inutile dire che dopo la vittoria con il Brasile e soprattutto dopo la vittoria della finale quasi tutti si dedicarono a uno dei principali sport italici: il salto sul carro del vincitore. Tra i giganti del giornalismo sportivo dell’epoca ricordiamo un Brera, un Arpino, ma anche scrittori prestati alle tribune come Mario Soldati e Oreste del Buono.

Tra gli uomini di sport ci sarebbe l’imbarazzo della scelta tra quelli da citare. Il Brasile allenato da Telê Santana era una squadra eccezionale con fuoriclasse come Falcao e Zico. Per quanto riguarda la squadra azzurra, inutile anche solo provarci. Basti pensare che la formazione di quella partita moltissimi se la ricordano ancora a memoria: Zoff, Gentile, Collovati, Scirea, Cabrini, Oriali, Antognoni, Tardelli, Conti, Rossi, Graziani.

Se possiamo segnalare i due caratteri  che svettano sulle due barricate contrapposte diremmo Socrates e Bearzot.

Il centrocampista brasiliano emerge per il suo spessore umano e politico. Medico e filosofo, strenuo oppositore della dittatura militare brasiliana, tra i fondatori della democrazia corinthiana, la sua figura barbuta colpisce l’immaginario. Bearzot è invece il vecchio friulano sanguigno, con un’educazione oseremmo dire asburgica e la pazienza di aspettare la resurrezione di Paolo Rossi devastato dallo scandalo del Calcio Scommesse del 1980.

La celeberrima copertina de quotidiano brasiliano “Jornal de tarde” sulla drammatica sconfitta dei verdeoro

Il 1982 viene dunque descritto come l’anno in cui si avvia l’irreversibile trasformazione del calcio nel nostro che è diventato oggi. Da un prodotto tutto sommato artigianale a un bene di consumo come tanti altri.

Quasi superfluo ricordare che, dopo aver superato la Polonia di Boniek in semifinale, l’Italia sarà capace di sconfiggere in finale la fortissima Germania Ovest. Una squadra capace di andare in finale tre volte su tre nel decennio per realizzare infine il suo sogno mondiale in una notte romana del 1990 a pochi mesi dalla caduta del Muro di Berlino.

Chi scrive ha avuto l’occasione di assistere a un’altra vittoria mondiale: quella del luglio 2006 contro la Francia di Zidane (e della sua celebre testata). Una sorta di “canto del cigno” della fortissima generazione degli anni Novanta sconfitta per tre mondiali di fila ai rigori da Argentina, Brasile e Francia e sfortunatissima nel 2000 con la sconfitta nella finale dell’Europeo a causa di un golden gol di Trezeguet dopo un’incredibile semifinale vinta con l’Olanda.

Si sa, il calcio, come la religione e tante altre cose, è oppio dei popoli, ma molti di noi ne sono irrimediabilmente addicted. Ecco dunque il ricordo della partite del Mondiale 2006 seguite nel cortile strapieno di Pergola. I festeggiamenti per la vittoria in semifinale coi padroni di casa della Germania e quelli per la vittoria della finale. Ma una frase ricorrente in quei giorni come oggi: “L’82 è stato un’altra cosa…”.

Nei lunghissimi titoli finali si viene colpiti da una sorta di malinconia che ti fa pensare di essersi perduti un’ epoca magica ed essere vissuti in un’era dove la mediocrità la fa da padrone. Un errore forse pensarlo, come ci ammonirebbe Woody Allen con il suo “Midnight in Paris”, ma è comunque un sentimento forte capace di lasciare l’amaro in bocca. Come a misurare la distanza tra leggenda e, se non proprio normalità, solo storia.

Questo essere di un’epoca ALTRA può essere simbolizzato da un oggetto: la pipa. Che fumano Bearzot, Pertini e Brera.

 

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