“Il focolaio” ovvero di quando la storia non insegna. Nulla.
È di ieri la notizia che la Procura di Bergamo ha iscritto nel registro degli indagati l’ex-direttore generale della sanità lombarda, Luigi Cajazzo, per la chiusura e la riapertura, il 23 febbraio scorso, del pronto soccorso di Alzano Lombardo dove erano già stati riscontrati i primi casi di Covid. Con lui indagate altre figure apicali della sanità lombarda.
Ed è passata poco più di una settimana dalla presentazione a ZAM del libro di Francesca Nava “Il Focolaio. Da Bergamo al contagio nazionale” pubblicato per Laterza e la situazione, nel giro di una decina di giorni, come molti avevano previsto, è rapidamente precipitata sopratutto in Lombardia. Nella giornata di ieri, 22 ottobre 2020, i contagi in regione sono stati 4.125 con 29 decessi. Al momento i ricoverati in terapia intensiva sono 156 con un aumento di 22 unità in un solo giorno. Questa recensione è quindi quantomai attuale.
La prima cosa da dire è che chiunque abbia toccato da vicino e in prima persona il disastro Covid leggendo questo libro faticherà a trattenere la commozione o la rabbia. O entrambe.
Fondamentalmente, si tratta di un vero e proprio pugno nello stomaco che ci spiega come, a differenza del cittadino comune che a fine febbraio era bombardato da notizie contrastanti e faticava a farsi un’idea chiara sulla situazione alternando momenti di sfrenato ottimismo alla più cupa disperazione, chi doveva e poteva decidere aveva quotidianamente sottomano TUTTI I DATI per poterlo fare. Ma ha perso tempo. Irrimediabilmente.
Il secondo elemento che salta prepotentemente all’occhio è che il detto “sbagliando si impara” è quantomai fuorviante e lontano dalla verità. Non sono bastati gli errori di questa primavera a prepararsi alla tanto temuta seconda ondata. E mentre la situazione è in continuo peggioramento si stanno ripetendo i ritardi e i dubbi di qualche mese fa. Dopo che quest’estate hanno dilagato posizioni negazioniste e superottimiste.
I due elementi su cui ruota il libro sono ormai noti: la mancata istituzione della zona rossa nella zona ad Alzano e Nembro (Val Seriana), dove l’infezione dilagava mentre gli occhi di tutti erano concentrati su Codogno, e la chiusura e immediata riapertura del pronto soccorso dell’ospedale Pesenti Fenaroli di Alzano Lombardo dove erano già stati diagnosticati i primi casi di coronavirus.
Il libro contiene alcune evidenze che ormai sono entrate nella coscienza dell’opinione pubblica come il vergognoso rimpallo di responsabilità tra le autorità centrali e quelle regionali (tutt’ora in corso in questo tragico ottobre, come se fosse una fotocopia!) e le pressioni del mondo padronale e produttivo, così potente nella più ricca regione italiana, per non chiudere i luoghi di lavoro. Attorno a questi temi, però, sono svelate una serie di questioni poco conosciute o totalmente rimosse, ma a nostro parere fondamentali e che approfondiremo a breve.
Il primo capitolo inizia, facendo venire i brividi (veri, non metaforici) con una scena ambientata la sera tra il 22 e il 23 febbraio all’ospedale Pesenti Fenaroli di Alzano in quello che potrebbe benissimo essere il fotogramma iniziale di un film apocalittico.
Da qui si sviluppa una narrazione serrata che fa emergere un primo dato incontrovertibile ovvero come l’OMS, Organizzazione Mondiale della Sanità, avesse totalmente sbagliato le prime indicazioni sulla gestione del virus. Se ricordate bene le prescrizioni erano di fare i tamponi soli ai sintomatici o a chi tornava da un viaggio dalla Cina. Bene, i primi casi di Covid scoperti in Italia sono stati scoperti sia a Codogno che a ad Alzano, forzando i protocolli.
Il secondo dato è che ci si è molto concentrati sull’ospedale di Alzano Lombardo dove fu presa la sciagurata decisione di riaprire il pronto soccorso dopo che erano stati diagnosticati i primi casi di infezione contribuendo al diffondersi dell’epidemia. Ma…cosa è successo negli altri ospedali dove nessuno ha avuto il coraggio o l’intuizione di forzare i protocolli?
Il terzo elemento, di cui si sta, troppo lentamente diffondendo consapevolezza e su cui però non è stata ancora avviata una seria riflessione (e questo anche per responsabilità anche dell’opposizione in Regione Lombardia e di un titubante Ministro della Salute) è lo stato penoso in cui versa la sanità italiana dopo trent’anni di ricette neoliberiste e in particolar modo la tanto decantata “eccellenza lombarda”.
Si scopre così che a inizio anno i posti in terapia intensiva in Italia ernao 5.000 contro i 28.000 della Germania e i 20.000 della Francia. Che in dieci anni sono stati sottratti alla sanità 37 miliardi. Che sono stati tagliati 70.000 posti letto e chiusi 800 reparti. Questo è l’eccezionale risultato dell’aver associato la parola profitto alla parola salute.
Il quarto spunto di discussione è il progressivo smantellamento della sanità territoriale di cui Comunione e Liberazione e Lega hanno una responsabilità innegabile.
Qualcuno si ricorda per caso la celebre frase del leghista Georgetti pronunciata, non a caso, al Meeting di CL a Rimini nell’agosto 2019: “Mancheranno 45mila medici di base nei prossimi cinque anni. Ma chi va più dal medico di base?”. Ecco questa frase dovrebbe essere trasmessa a reti unificate per 24 ore di fila.
Ma qui è necessario citare direttamente il libro:
“In Lombardia esiste un servizio sanitario misto, in cui le strutture del privato convenzionato, del tutto disinteressate ad attività come la prevenzione, ricevono circa il 40% dellam spesa sanitaria corrente. (…) Curare è meglio che prevenire. Conviene di gran lunga di più. E’ un discorso cinico, ma reale: se i cittadini sviluppano patologie si trasformano in potenziali clienti..”.
Il sesto argomento focale che molti dimenticano è che il lockdown notturno dell’11 marzo (quello che “chiudeva” il paese) fu in realtà un lockdown dalle maglie molto molto larghe. E bisognerà aspettare altre due settimane perché queste maglie vengano ulteriormente strette continuando comunque a far andare a lavoro un mare di gente. Anche in settori tuttaltro che fondamentali.
Ci sembra sensato chiudere la recensione di questo libro di cui consigliamo la lettura con due considerazioni tratte proprio dall’opera di Francesca Nava e adatte a questi giorni.
La prima è tratta da uno studio internazionale pubblicato il 5 giugno 2020 e intitolato “Excess deaths and hosplital admissions for Covid19 due to a late implementation of the lockdown in Italy” ovvero “Eccesso di morti e ricoveri ospedalieri per Covid19 a causa di una ritardata attuazione del lockdown in Italia” in cui si sostiene chiarament la tesi che se nei 20 giorni trascorsi tra la scoperta del primo paziente positivo a Codogno e il lockdown del paese non si fosse perso tempo si sarebbero potuti evitare milgiaia di morti. Ecco. Siamo tornati punto e a capo e sembra di rivivere le stesse identiche scene.
La seconde è una citazione che chiude il libro tratta da una discussione Vittorio Demicheli, direttore sanitario di Ats Milano che dice testuali parole:
“Col senno di poi adesso chiudere l’Italia il 23 febbraio. Andava fatto un lockdown nazionale in fretta. Cioè la Lombardia se ne frega e infatti la zona rossa di Codogno la fa il governo (…)”.
Ecco. La Lombardia se ne frega.
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