“Succession”, una serie essenziale
Prima di parlare del valore inestimabile di questa serie faccio una personale considerazione legata al mio atteggiamento quando approccio una serie.
Io letteralmente odio non poter amare un personaggio, non avere un riferimento, una guida, un barlume di speranza.
Quantomeno ho bisogno di qualcuno con cui minimamente empatizzare.
E quando questo non succede, molto spesso, abbandono la serie. E’ una mia tara, ma è un preambolo necessario a definire la grandezza di Succession.
Sì perché in Succession non esiste indulgenza, comprensione, empatia. Esiste solo un mondo composto da squali, inetti, inermi, innocui e disperati. Di personaggi che ho disprezzato quasi totalmente per 39 puntate.
Eppure non sono mai riuscito a smettere di osservarne le ascese, le cadute, i crolli e le parabole.
Ero a tratti catatonico, in osservazione e in attesa di tutto quello che sarebbe successo da lì a pochi minuti.
La vicenda è un refrain antico, il potere in tutte le sue sfaccettature, come detenerlo, esercitarlo e distribuirlo.
Roba da “Dallas” negli anni ’80, con la differenza che il tycoon in questione, Logan Roy, non è un magnate del petrolio ma dei media, nella rivisitazione più attuale di chi controlla l’economia mondiale attraverso la manipolazione delle opinioni e delle menti.
E’ intorno a Logan e ai suoi figli che si sviluppa la narrazione, ecco sì, proprio la narrazione, termine che torna frequentemente nelle puntate che riguardano le elezioni politiche americane della quarta stagione e che riguarda il mondo dell’informazione.
Ora io non voglio minimamente spoilerare, perché lo troverei delittuoso e perché vorrei che chiunque guardasse Succession, per avere mille chiavi di lettura rispetto ai rapporti umani disastrosi che costruiscono ogni singola puntata, per avere un’idea di cosa possa essere il potere oggi, per addentrarsi nelle miserie ma anche nelle complessità che compongono i protagonisti.
Faccio solo un breve accenno a tre dei personaggi chiave.
Kendall, forse il più lineare nella narrazione, e non perché non gli succedano mille cose, ma per la linearità del suo intento, la sua brama, la sua mira, tanto simile dal primo all’ultimo episodio, passando attraverso vari gironi infernali
Roman, il più complesso, masticato dalla grandezza del padre e risputato al mondo pieno di insicurezze e di piccole perversioni, che percorre una strada che lo porta quasi al vertice, fino a un crollo verticale che gli preclude la possibilità di essere “il più grande” (altro tema spesso affrontato, e non solo per questioni anagrafiche) tra gli eredi.
Shiv, la figlia, quella che per lunghi istanti sembra essere la più centrata, con una vita tutto sommato regolare, con un marito inetto, Tom, burattino nelle mani di tutta la famiglia (che però ci sorprenderà tutti con un crescendo finale epico). Shiv, la mia delusione più grande, perché solo in lei sono riuscito, a tratti, a riporre un minimo di speranza. Shiv, soffocata tra la brama di potere e un ambiente tossico, maschilista, che la confina ai margini lasciandole però intendere di essere presa in grande considerazione. E che finisce con il marginalizzarsi, come per tutta la vita ha fatto.
E poi una serie di straordinari comprimari, descritti perfettamente tra paranoie e paure, pronti a distruggersi a vicenda pur di compiacere i desideri di Logan o di chiunque potesse garantire qualcosa.
Insomma vorrei scrivere mille cose, tipo che non esiste una puntata che non sia essenziale, non esiste un momento in cui ci si stanca di assistere al tristissimo, ma allo stesso modo grandioso, spettacolo della famiglia Roy. E non esiste nulla che non funzioni, nulla.
Dico solo che Succession è una serie essenziale. Grandiosa.
RM
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