Il “noi” come unica infrastruttura possibile

Dopo la mobilitazione del 18 ottobre a Firenze, i numeri che ci rammentano i lavoratori e le lavoratrici del Collettivo di Fabbrica (dodici manifestazioni, più di mille giorni di presidio) non raccontano solo la tenuta di chi resiste, definiscono l’ampiezza di un rifiuto collettivo. Il rifiuto di accettare che l’inerzia istituzionale sia neutra, che i ritardi siano tecnici, che l’impossibilità sia oggettiva. Quello che abbiamo visto in questi anni è una scelta precisa e strategica: bloccare un esperimento che mette in discussione l’ordine esistente.

A questo punto, forse, nessuno si chiede più quando le istituzioni faranno la loro parte. Vogliamo chiederci, piuttosto, quanto siamo capaci di tenere insieme per fare la nostra. Perché quello che è emerso con chiarezza è che aspettare significa consegnare questa storia alla lenta cancellazione. E allora bisogna decidere se vogliamo essere spettatori di un epilogo già scritto o protagonisti di una traiettoria diversa.

La posta in gioco, quindi, è più alta di quanto pensiamo. Se quella fabbrica deve riaprire, deve riaprire perché c’è un tessuto sociale che la tiene in piedi, non perché qualcuno ha resistito abbastanza a lungo. La convergenza, allora, è la scommessa che le lotte possano diventare reciprocamente indispensabili, e non un gesto di solidarietà occasionale. Che la battaglia per il lavoro dignitoso non possa vincere senza quella per la giustizia climatica, e viceversa. Che difendere un pezzo di produzione sociale significhi difendere anche chi lotta contro le deportazioni, contro la militarizzazione, contro la precarietà abitativa. Perché il sistema che produce una di queste violenze le produce tutte, con la stessa logica. E se vogliamo interromperlo da qualche parte, dobbiamo farlo insieme.

Lunedì 27 ottobre essere al Teatro Puccini (Firenze) per l’assemblea pubblica cittadina organizzata dal Collettivo di Fabbrica sarà importante perché abbiamo capito che il tempo delle dichiarazioni è finito. Servono gesti concreti, risorse messe in comune, pratiche replicate. Servono persone disposte a portare competenze, a moltiplicare i presidi. Serve che ogni realtà che si riconosce in questa lotta si chieda: cosa possiamo fare, concretamente, per rendere questa autonomia praticabile? Come trasformiamo la vicinanza politica in mutualismo operativo?

Perché di nuovo, la posta in gioco non è solo la riapertura di una fabbrica. È la dimostrazione che si può uscire dal ricatto a cui ci sottopongono tra rassegnazione e attesa. Che quando le istituzioni scelgono l’immobilismo, le comunità possono scegliere l’organizzazione. Che l’inevitabilità del sistema si frattura ogni volta che qualcuno prova a costruire qualcos’altro. Testardamente, collettivamente, senza deleghe. 

Martina Maccianti

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