La green generation si mette in comunicazione
Friday for Future – A Napoli da tutta Italia per la seconda assemblea nazionale: da Alessandria e Taranto i giovani raccontano le loro battaglie locali sull’ambiente.
Il battesimo della seconda assemblea nazionale di Fridays for future Italia, ieri mattina, è avvenuto a San Giovanni a Teduccio, periferia est di Napoli. Tute bianche e striscioni, per un’ora gli attivisti hanno bloccato l’ingresso del deposito di carburanti della Q8: «È stata un’azione simbolica – spiega Raniero Madonna di Stop biocidio, che ha organizzato la protesta in collaborazione con Fff Napoli – perché rappresenta quel sistema economico che distrugge il territorio: il mega deposito di carburante è stato oggetto di un’inchiesta giudiziaria, per i magistrati gli scarichi sono stati immessi in falda senza trattamento. Si trova a ridosso dell’area Sin – sito di interesse nazionale profondamente inquinato dagli idrocarburi e ancora oggi fonte di inquinamento dell’aria per gli abitanti della zona, esposti continuamente ai fumi di una produzione «clima alterante». Così si moltiplicano le malattie nella popolazione mentre l’area si impoverisce».
Ai lavori dell’assemblea nazionale, che si conclude oggi pomeriggio, si è arrivati passando da una tre giorni di formazione ancora a Napoli, «Life vs Capital» il tema, sostenuta da Guerrilla Foundation in collaborazione con Let’s do it / Italia, Fridays for future ed Ecologia politica. Ai workshop hanno preso parte docenti e attivisti per trovare nuovi paradigmi su colonialità e crisi ecologica, energie rinnovabili e fuoriuscita dal fossile. Ieri intorno alle 12, a piccoli gruppi, le ragazze e i ragazzi di Fff arrivati da tutta Italia hanno iniziato a convergere su Castel dell’Ovo per i tavoli tematici del pomeriggio (giustizia climatica, coordinamento e metodo di lavoro, comunicazione e pratiche gli argomenti), oggi assemblea plenaria.
Molti si erano già incontrati al primo appuntamento nazionale di Milano dello scorso 13 aprile. «I nodi locali funzionano bene – raccontano – mentre è più complicato coordinarsi a livello regionale. Gli appuntamenti generali servono per darci una metodologia d’azione comune».
Anita Giudice è arrivata con sei compagni da Alessandria: in quattro sono studenti, tre vanno alle superiori. «La nostra città è invivibile per i pedoni, mancano le Ztl – racconta -, soffochiamo per lo smog prodotto dalle auto ma anche dalle fabbriche. I depuratori non funzionano, siamo circondati dalle discariche abusive di rifiuti, le strade sono sporche. Quando in Tv vedevamo le immagini di Napoli pensavamo ai tanti punti di contatto, solo che di Alessandria i media non parlano». Ma cosa li ha spinti a organizzarsi contro il Climate change? «Io e le mie compagne – spiega – frequentavamo le assemblee di Non una di meno, il tema della giustizia climatica e sociale ci ha fatto incrociare il Fff. Altri vengono dal movimento NoTav perché al Nord il tema delle grandi opere, utili sono ai gruppi industriali, è fondamentale per uscire dal paradigma economico distruttivo in cui ci troviamo. Prima di noi c’è stato un grande gap generazionale, ora gli studenti delle superiori si sono attivati facendo rete. Invece è più difficile coinvolgere gli universitari perché sono bombardati dall’idea che devono crearsi rapidamente un percorso verso il mondo del lavoro e delle aziende senza coltivare una coscienza o una vita sociale. Noi, al contrario, vogliamo riprenderci spazi di discussione».
Gennaro Piccirillo studia Filosofia alla Federico II di Napoli, il tema dell’università come luogo impermeabile ai cambiamenti lo conosce bene: «Nelle crisi il sistema si riorganizza, il capitalismo è pronto ad attivare una nuova fase sfruttando il greenwashing, dando una patina di verde al profitto. Per impedire che si scavalchi ancora la giustizia sociale dobbiamo entrare nelle aule e imporre una nuova agenda di studi. Basta insegnare a costruire inceneritori, basta con gli studenti in visita nelle imprese e, addirittura, nelle multiutility che gestiscono termovalorrizzatori, come accade agli studenti medi di Acerra. La ricerca deve cambiare approccio e noi dobbiamo lottare per imporre il cambiamento. Al ministro dell’Istruzione diciamo che si impegnasse a finanziare la ricerca e togliesse l’alternanza scuola – lavoro».
Andrea Berta è di Treviso: «Veniamo da una delle aree più cementificate d’Italia. Le campagne sono rovinate dalla monocultura del prosecco, le acqua sono inquinate dai Pfas, almeno 600mila le persone a rischio tumore. Avvertiamo molto forte il pericolo per la nostra vita. Del resto c’è un filo rosso che lega il nostro attivismo alle battaglie per l’inquinamento a Porto Marghera». E ancora: «L’aeroporto di Treviso attraversa il parco naturale del fiume Sile, alle porte della città. Addirittura gli uccelli che dovrebbero essere al sicuro nel parco vengono uccisi dai velivoli precipitando sul suolo cittadino. Abbiamo realizzato delle centraline “fatte in casa” per rilevare le condizioni dell’aria, visto che l’Arpa ne ha poche. Dall’inizio dell’anno gli sforamenti sono stati già 40». Poi ci sono le alterazioni del paesaggio: «Da bambino facevo il bagno nelle cave, intorno alla città. Oggi quei pozzi profondi, che arrivavano fino alla falda, sono stati riempiti con rifiuti illegali, anche tossici. Questo materiale è diventato sedimento con cui stanno realizzando la Pedemontana, una superstrada inutile che ci costerà 13 miliardi per 95 chilometri, 50 dei quali sotto il livello stradale e per questo si sono già allagati. Intanto nel cantiere due operai sono morti. Poi c’è il tema della turistificazione a partire da Venezia. Quando discutiamo di Climate change stiamo innanzitutto mettendo in questione la democrazia e i rapporti sociali, portandoli fuori dalla geometria del potere».
Di territorio devastato sono esperti anche Antonio Lendi e Lorenzo Boccuni, ventenni di Taranto: «Subiamo un vero e proprio razzismo ambientale. Dobbiamo convivere con l’ex Ilva cioè lo stabilimento che produce più CO2 in Europa, un climate monster. A Genova hanno chiuso l’area a caldo perché non era sostenibile e l’hanno spostata da noi, dove ce ne sono cinque. Siamo forse differenti dai genovesi?».
Sul cellulare mostrano la mappa della città: «Accanto ai campi minerari e ai forni ci sono le raffinerie dell’Eni e la Cementir, che lavora la loppa dell’Ilva. Poi ci sono tre inceneritori, discariche in tutta la provincia inclusa l’Italcave che prende anche rifiuti speciali. E ancora l’arsenale militare vecchio e quello nuovo, la base Nato, il deposito di scorie nucleari, il porto militare. Siamo pieni di muri che non possiamo attraversare, la città è soffocata da zone dove è vietato entrare.
Le superfici sono coperte da polveri, l’aria puzza di carbone, ferro e gas».
A Napoli sono venuti con un’idea precisa: «Moriamo per la concentrazione di industrie obsolete eppure ci ricattano chiedendoci di barattare la salute con il lavoro ma è una bugia: il lavoro non c’è lo stesso, Taranto è povera. I nostri coetanei sono andati quasi tutti via. È un modello di sviluppo fallito impastato di razzismo. Bisogna chiudere tutto e bonificare. È inutile rimanere nelle associazioni di quartiere, dobbiamo lottare per costruire un modello differente che non lasci nessuno nel ruolo della discarica del sistema».
di Adriana Pollice
da il Manifesto del 6 ottobre 2019
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