Le condizioni delle donne maltrattate durante l’epidemia di Covid19

Seconda puntata di Quaderni Metropolitani, una serie di video-interviste prodotte da LUMe. In questo secondo capitolo il tema trattato sarà “Le condizioni delle donne maltrattate durante l’epidemia di Covid19” con un’intervista a Manuela Ulivi, presidente Casa di Accoglienza delle Donne Maltrattate di Milano.


Premettendo che la violenza di genere è una questione strutturale, avete notato cambiamenti significativi del fenomeno durante l’emergenza sanitaria che stiamo vivendo? Se sì, quali?

Cambiamenti particolari non ci sono, nel senso che questa emergenza ci ha dato l’indicazione che le donne che non sono libere e che quindi non si possono muovere perché hanno vicino un violento che le condiziona, ovviamente non possono fare delle scelte di vita importanti. Questo vale in ogni momento; dopodiché oggi c’è un problema in più che è quello di non poter neppure uscire di casa, quindi l’importante è essere capaci di utilizzare ogni momento possibile per cercare, se ce n’è bisogno, aiuto perché, come noi diciamo,  la violenza non si ferma. Importante è che noi ci siamo e rimaniamo a disposizione.
Sono cominciate a tornare delle telefonate: molte delle telefonate sono state anche di persone vicine a quelle donne perché parenti, amici, colleghi, colleghe hanno avuto un momento di preoccupazione maggiore per queste loro conoscenti o parenti che vivono in una situazione di violenza. Quindi le  modalità per organizzarci sono state diverse perché ovviamente con il problema di non poterle più vedere direttamente se non in situazioni di emergenza noi abbiamo dovuto fare subito un’attivazione del nostro centralino anche con tempi (di apertura) maggiori rispetto a quelli di prima. In più c’è anche il problema di tutela sanitaria delle operatrici che hanno continuato comunque a lavorare seppure in sicurezza. Siamo state attente a ridurre, ad esempio, le presenze e a tenere le distanze necessarie per essere tranquille nel nostro lavoro.

Le richieste di aiuto delle donne hanno subito variazioni quantitative e qualitative? Quali bisogni hanno le donne che vi contattano e a quali bisogni il centro può rispondere in questo momento? Che tipo di supporto richiedono?

Cercano di capire come si possono muovere in un momento in cui sono maggiormente controllate e quale prospettiva possono cominciare a preparare se desiderano uscire dalla convivenza con un violento e quindi pensare ad una vita futura in libertà.

Come è cambiata l’attività del centro durante queste ultime settimane? Come affrontate le richieste di aiuto che arrivano?

Come dicevo prima, dei cambiamenti ci sono stati ovviamente perché non vediamo più le donne direttamente se non in alcuni casi di emergenza. Quindi se la situazione ovviamente non può aspettare, come tutte le situazioni di pericolo non lo possono, allora noi comunque, con tutte le precauzioni del caso, riceviamo ugualmente le donne; abbiamo anche provveduto a due inserimenti in strutture protette.

Sappiamo che solitamente i centri antiviolenza basano il loro intervento su una richiesta esplicita da parte della donna, che deve quindi contattarvi proattivamente. Ritenete opportuno, in questo momento di emergenza, l’uso di altri canali o altri soggetti che possano aiutare la donna che vive una situazione di violenza intrafamiliare? (Per esempio, in un condominio è valutabile l’intervento di un vicino/a a cui la donna può rivolgersi come intermediario/a per il contatto con il centro?)

Intanto è sempre importante che la scelta sia fatta direttamente dalla donna. Però oggi noi diamo informazioni e indicazioni anche a persone che stanno vicine a quelle donne quindi facciamo un intervento di  tipo particolare proprio per la situazione che stiamo vivendo perché magari la donna che è in una situazione di pericolo, in una situazione in cui vorrebbe parlarci ma non può, deve utilizzare degli altri canali. Quindi abbiamo dato anche disponibilità ad un ascolto delle persone che sono vicine alle donne. Dopodiché ovviamente noi dovremo comunque ricominciare ad essere in relazione con queste donne perché per noi la relazione è tutto, è quello che cambia la prospettiva, quindi il potersi affidare, il potersi incontrare, il poter sapere che lì hai delle persone che empatizzano con te nel modo giusto perché hanno proprio come idea, come volontà, quella di essere al fianco della donna per la sua libertà.

A vostro giudizio, in questo particolare momento emergenziale, la narrazione mediatica dei recenti femminicidi è cambiata o continua a contribuire al rinforzo della cultura della violenza?

E’ sempre un grosso problema. Diciamo che più che rinforzo della cultura della violenza, non erode l’idea che è l’uomo che decide di usare violenza ed è quella la situazione contro cui dobbiamo intervenire. Invece si dà sempre una forma di giustificazione: prima era quella del raptus, della gelosia, della situazione di difficoltà. Oggi abbiamo visto delle perle dal punto di vista della comunicazione, dove non è l’uomo che ammazza ma è la situazione in cui sono costrette le coppie e quindi la condizione di chiusura all’interno della casa che crea una condizione per cui si finisce nel femminicidio. Quindi  viene sempre spostato il soggetto che agisce la violenza per dare come una specie di giustificazione. Ecco, da questo punto di vista devo dire che la stampa non fa un buon lavoro di educazione, di comunicazione, di informazione corretta di quella che è la violenza che subiscono le donne.

Per finire: secondo voi, in questo momento di emergenza sanitaria, quale dovrebbe essere il compito delle istituzioni? Ritenete che stiano rispondendo in modo corretto alle esigenze che sono emerse?

E’ complicato da definire. Intanto vorremmo che le istituzioni capissero che quando si devono prendere delle misure che riguardano le donne, così come per il Coronavirus si rivolgono ai virologi, per le questioni che riguardano le donne dovrebbero sentire le parole delle donne dei centri antiviolenza perché la competenza è di chi ha visto migliaia e migliaia di donne. Quindi dovrebbero sostenerci per la competenza e per la presenza.
Oggi il 1522 funziona, è un numero a cui la gente si rivolge ma che dà risposte se dietro a questo numero c’è un centro antiviolenza territoriale che sostiene. Quindi le istituzioni dovrebbero evitare di imporre condizioni ai centri antiviolenza, dovrebbero riconoscere questo lavoro che viene fatto e il riconoscimento passa anche attraverso un sostegno economico importante e meno burocratico, meno burocratizzato, che non impieghi mesi o anni ad arrivare quando i centri antiviolenza devono lavorare quotidianamente e dare risposte sull’oggi e non fra dieci anni.

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