Per una città transfemminista, contro la cultura dello stupro

Cosa significa vivere in una metropoli “sicura”?
Cosa significa immaginare una città transfemminista?
Se va a fuoco un’installazione contro la violenza sulle donne è una ragazzata?

Se invece andasse a fuoco un museo, come la definiremmo?
Come rendere realtà il nostro piano, che è #moltopiùdizan, nella vita concreta delle donne e delle persone lgbtqia+ nella città di Milano come in tutto il paese?

Se i mezzi pubblici andassero tutta la notte rischieremmo meno violenze e molestie sulla via del ritorno a casa?
Se il modello di socialità incentivata non fosse quello dei locali dove “le donne pagano la metà”, della cocaina e dei tavoli “cento stupri”, potremmo goderci una serata con meno preoccupazioni?
Se il modello di socialità mettesse invece al centro il rispetto e la dignità potremmo sentirci libere di esprimere ciò che siamo?
Se non si minimizzassero le battute sessiste, i fischi, gli “apprezzamenti” non richiesti per strada, ci sentiremmo più a nostro agio a camminare da sole, fare jogging o a portare fuori il cane?
Se le periferie e i parchi fossero sedi di biblioteche, asili, aree sportive, servizi, festival e attività culturali e sociali avremmo più possibilità di vivere, far vivere i nostri quartierie renderli luoghi sicuri?
Se i piani di ridefinizione dell’architettura cittadina fossero pensati per essere attraversabili davvero da tutte le persone a prescindere dal sesso, dal genere, dall’origine,dall’abilità, ci sentiremo meno ingabbiat* in percorsi definiti unicamente dal profitto?
Se i monumenti, i nomi delle vie, le statue che raccontano la città e lastoria non fossero più solo espressione del dominio dell’uomo bianco, forte e dominatore, le nuove generazioni crescerebbero con una mentalità aperta, accogliente alle diversità e più critica?

A Milano nell’estate 2020 in una sola settimana sono stati denunciati 7 stupri avvenuti in strada.
Le violenze di genere in luoghi pubblici sono in media il 20% di quelle totali.
Durante la quarantena, i femminicidi sono passati dal 32% al 48% del totale degli omicidi. In particolare, sono quelli commessi in ambito familiare ad aumentare: dal 57% al 75% delle vittime totali.
È una pandemia.

È l’ora di una presa di responsabilità collettiva: è l’ora di una seria discussione sullo spazio pubblico e lo spazio privato.

Non è possibile continuare a fingere di non vedere cosa accade nelle strade, nei parchi, nei locali pubblici, tra le pareti domestiche!
Non è possibile continuare ad accettare la narrazione tossica dei media mainstream, la colpevolizzazione della vittima, l’assoluzione e la comprensione che i tribunali offrono al maschio violento e tutti quei modi che giorno dopo giorno alimentano la cultura della violenza e dello stupro.

Si tratta di un insieme di abitudini, stereotipi, ruoli di genere, concezioni culturali e sociali che costituiscono un terreno fertile per la proliferazione delle aggressioni sessuali e della violenza maschile contro le donne e di genere. E’ uno status quo, una “normalità” in cui tutt* nasciamo, cresciamo e viviamo immers*. Sono insegnamenti tramandati da una generazione all’altra, battutine fatte “per ridere”, fischi per la strada, una canonizzazione dell’amore esclusivamente in termini di romanticismo tossico, possesso e gelosia, di banalizzazione delle molestie, delle pacche sul culo, delle strusciatine sui mezzi, di condizionamenti alla prestazione sessuale, di stupro.

In casa e in città.

“La cultura dello stupro descrive il processo per cui lo stupro e le molestie sessuali vengono banalizzati e giustificati, il processo per cui l’agire sessuale delle donne è costantemente negato e ci si aspetta che donne e ragazze vivano nella paura di subire uno stupro e cerchino in ogni modo di proteggersi”

(L’orizzonte del desiderio – Penny)

Non vogliamo vivere nella paura di subire una violenza. Non si tratta di paranoia, si tratta di decidere come ridefinire lo spazio urbano e domestico in cui viviamo, nella consapevolezza che spazio pubblico e privato non si sono mai compenetrati così tanto a vicenda come a partire dalla pandemia.

Lo abbiamo scritto nel nostro Piano: è necessario immaginare e praticare una “cultura del consenso” in ogni interazione sessuale, sociale, politica. Si tratta di un processo continuo, un’ interazione tra esseri umani: da sé stess, alle e ai propr congiunt*-qualsiasi cosa vogliamo intendere, fino alle comunità che viviamo.

Questo processo non è rimandabile, contro la violenza maschile sulle donne e di genere, per costruire assieme una Milano città transfemminista.
Invitiamo tutte, tutti e tuttu a partecipare alle assemblee di Non Una DI Meno che riprenderanno a settembre per continuare insieme le riflessioni ele azioni.

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