“Scrivo prima di fare l’esame” – Riflessioni di una docente sullo stato dell’istruzione in Italia

Scrivo prima di fare l’esame, così non ci sono dubbi che questo, oltre che essere uno sfogo, sia anche una critica oggettiva al funzionamento del Ministero della Pubblica Istruzione, Università e Ricerca, il Miur.

La scuola pubblica non fa schifo, è il sistema che fa schifo.
Si dice:
Il livello culturale e sociale di un paese si misura sul rispetto per l* docent*, perché ess* sono coloro che preparano la società di domani.

Ecco, forse è proprio da qui che nulla funziona.

Non si tratta di quanto poco l* insegnanti vengano pres* in considerazione dalle famiglie, genitor* o tutor*, né dalle lamentele che lasciano il tempo che trovano su quanto l* insegnanti nella scuola pubblica siano lì a scaldare la sedia e nemmeno di quanto nelle proteste durante la pandemia tutt* sembravano avere un parere su come dovesse essere la scuola e cosa dovessero fare l* docent* (che molto assomigliava a quella dimensione di sacrificio e missione che dovremmo abbracciare a qualunque costo manco fossimo martiri del lavoro di cura -come succede per tutti gli altri lavori di cura-) e gli unici pareri passati in second’ordine erano proprio quelli de* insegnanti.
No, non si tratta di questo, anche se questi sono elementi molto indicativi del tipo di società che le istituzioni hanno contribuito a formare.

A capo di questa non considerazione c’è lo Stato, i governi di qualsiasi colore e quindi il Miur.

L’Italia continua ad essere l’unico paese nell’Unione Europea che si serve del lavoro precario per mandare avanti l’istruzione e la formazione.
A reggere il fardello centinaia di migliaia di precari* che ogni due anni si destreggiano tra diversi tipi di graduatorie, ogni non si sa quanti anni provano a passare concorsi, ogni anno sperano di diventare di ruolo “pescat*” dalle graduatorie ad esaurimento…e qui si parla di persone con l’abilitazione da anni.
Durante il governo Renzi l’Unione Europea minacciò l’Italia di pesanti sanzioni se le centinaia di migliaia di persone precarie non fossero state assunte tramite sanatoria.
Quello fu forse l’unico momento di respiro per chi si trova ad insegnare da anche 10 anni e deve aspettare invano un concorso o di passarlo una volta indetto.

Veniamo ad oggi.

Nel 2020 il governo precedente ha bandito due concorsi, ordinario e straordinario.
Un numero sconsiderato di iscritt*. Solo per l’ordinario 430.558.
Con l’arrivo della seconda ondata di pandemia il Miur ha ritenuto di tenere valido lo straordinario (pochissime persone lo hanno superato) e di svolgere l’ordinario a data da destinarsi.
Questa “data da destinarsi” è arrivata due anni dopo.
Due anni in cui sono stati molteplici gli avvertimenti da mal di pancia…del tipo…”domani pubblichiamo” il concorso, due anni in più di precariato tra DAD, DDI, lezioni e piattaforme online, colloqui su colloqui ecc…due anni in cui, come tutti quelli precedenti, ogni anno o ogni mese non sai in quale scuola lavorerai e per quanto tempo.
Ebbene, dopo questa ennesima tarantella, riaprono il concorso ordinario e lo fanno nemmeno un mese prima dell’inizio delle prove…
…eh, certo, perché un* docente deve sapere tutto lo scibile umano sempre…perché di fatto è questo che chiedono i programmi.
Esce il concorso, dicevo, con programmi vaghissimi.
A una settimana e mezza dalla prova vengono aggiunti argomenti a caso al programma.
Ogni commento è superfluo.
Si svolge la prima giornata della mia classe di concorso (o meglio la stessa classe ma per la secondaria di secondo grado -aka, le superiori-)
Una strage.
Domande fuori programma, pochissime domande su punti cardine.

Un test che nemmeno lontanamente misura la preparazione, ma serve solo a fare selezione, ripulire qua e là…tropp* iscritt*.
E il fattore preponderante è quello C.
Il fattore culo.
Il punto è…a chi serve tenere centinaia di migliaia di precar* della scuola che nella corsa ad aumentare il proprio punteggio fanno certificazioni e corsi di ogni tipo, naturalmente accreditati dal Miur?
A chi serve tutta questa gente precaria per decine di anni a cui cambiano la validità dei titoli e la possibilità o meno di insegnare da un anno all’altro?
A chi serve la frustrazione che nasce da tutto questo e che per forza influenza la qualità dell’insegnamento?

Al profitto.
Si fanno più soldi così.
Il business delle certifertificazioni, dei corsi, dei corsi universitari, delle iscrizioni ai bandi è una macchina che si autoalimenta e che non è volta a nessuna redistribuzione, né in termini culturali, né sociali, né, ovviamente, pecuniari per l’istituzione scuola.

Uno Stato che non investe nel futuro ma investe in morte e armamenti, è uno Stato da rivoltare.

V. Tine

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