Verso un’analisi critica delle tecnologie digitali: la profittevole estinzione delle api

Siamo lieti di pubblicare il primo di tanti contributi sull’analisi critica delle tecnologie digitali scritto da un compagno ricercatore esperto di Intelligenza Artificiale.

La profittevole estinzione delle api

Da Dante a Marx, da Dickinson a de Mandeville, innumerevoli sono gli autori che hanno subito il fascino della complessa struttura sociale delle api, riflettendola nelle metafore più varie.

Tra le più riuscite, può sicuramente essere annoverata quella di Yann Moulier Boutang nel suo Capitalismo Cognitivo. Nel libro, la cui prima edizione risale ormai a più di dieci anni fa, viene tratteggiata una classe capitalista che, avendo ormai dominato totalmente il lavoro produttivo relativo alla creazione del miele, tenta di predare il frutto del lavoro creativo e riproduttivo, raffigurato come il volo delle api che permette l’impollinazione dei fiori.

Per quanto brutale e soggiogante possa essere questa ulteriore appropriazione di valore, Boutang conclude la sua metafora con un punto fermo: “[…] l’impollinazione richiede [comunque] l’esistenza delle api”.

Oggi, nel 2019, possiamo dire che non è più così, guarda caso, grazie all’ennesima app.

La piattaforma Augmented Eternity si propone infatti di costruire un’identità algoritmica copia dei suoi utenti, in grado di riprodurne in eterno interazioni a loro immagine e somiglianza. Una sorta di aldilà elettronico dove sia possibile comunicare con gli alter ego digitali di persone anche scomparse da tempo.

Il cuore di questa piattaforma si fonda sull’accumulazione dei metadati, le tracce digitali che gli utenti lasciano nelle loro interazioni quotidiane, dalle chat, alle mail, sino alle geolocalizzazioni. Queste informazioni di base vengono utilizzate per costruire una prima rappresentazione degli utenti, i quali possono poi aggiungere ulteriori dettagli e caratteristiche in modo da personalizzare il proprio agente software per renderlo il più possibile simile a sé.

Negli obiettivi di Hossein Rahnama, la mente dietro questo progetto, ciò permette a chiunque interagisca con gli avatar generati di non percepire sostanziali differenze tra le persone reali e la loro immagine algoritmica.

L’esistenza della persona fisica, su cui l’identità digitale viene modellata, risulta così superflua, superata, con buona pace delle api di Boutang.

Augmented Eternity è ancora in fase di progettazione e sviluppo, ma ciò non costituisce un freno per gli investitori che hanno puntato sulla compagnia di Rahnama.

Questi finanziatori non scommettono infatti in un improbabile mercato del “chatta con il nonno”, quanto sul ben più remunerativo mercato delle borrowable identities, le identità in prestito.

Un mercato totalmente nuovo, dove un utente, come un CEO di successo, un avvocato di grido, un famoso scienziato, un guru religioso, mette a disposizione la propria identità digitale al miglior offerente: conoscenze, capacità decisionali, esperienze di vita, tutto ciò diviene cristallizzabile nel codice delle identità di Augmented Eternity, pronto per essere noleggiato indefinitamente.

Uno scenario alla Black Mirror? Assolutamente no. È del 2014, ormai cinque anni fa, la notizia dell’ingresso di un algoritmo nel consiglio di amministrazione della Deep Knowledge Venture, fondo di investimento che ha scelto di concedere il diritto di voto sulle proprie strategie commerciali all’algoritmo Vital. Non è quindi difficile immaginare una compagnia tecnologia che annunci di avere acquisito i diritti per l’avatar di Steve Jobs, da inserire nel proprio board of directors.

Arrivati a questo punto, potrebbe far sorridere constatare come nemmeno i vertici della gerarchia capitalistica siano immuni di fronte a una possibile sostituzione per via dell’automazione.

Una soddisfazione però effimera, quella prodotta da questa bizzarra forma di egualitarismo algoritmico, poiché in realtà mostra il livello di assoggettamento a cui siamo sottoposti, proprio per mezzo delle tecnologie digitali.

Il comando capitalistico di queste tecnologie preclude infatti ogni forma di relazione, di soggettività, di produzione e riproduzione al di fuori delle coordinate del capitale stesso.

Ogni espressione vitale, dalla più determinata alla più inconsapevole, dalla più complessa e articolata, sino agli atti involontari viene trasformata, misurata, catalogata e riprodotta digitalmente, con un livello di intensità e penetrazione della sfera vitale inimmaginabile solo pochi anni fa.

Basti pensare all’utente di Amazon che stava tranquillamente acquistando della corda sul sito di e-commerce e che si è ritrovato nei suggerimenti sui prodotti da abbinare al suo acquisto uno sgabello.

Un fake? Può essere, ma ciò non toglie che la dinamicità dell’algoritmo di Amazon ne renda possibile, anche solo in linea teorica, la capacità di assimilare i desideri suicidi dei suoi utenti per trasformarli in profitto.

Di fronte a tale violenza ed estensione dell’impatto delle tecnologie digitali a guida capitalista, ci si aspetterebbe uno sguardo attento sul tema da parte di una qualsivoglia teoria rivoluzionaria o anche solo vagamente anticapitalista.

Purtroppo, se uno sguardo c’è, è sfocato (salvo rare eccezioni), trovandosi il più delle volte stretto tra inopportuni luddismi e incaute fascinazioni.

Nel primo caso, l’inattuabilità si accompagna al sacrificio dell’enorme potenziale liberatorio della tecnologia; nel secondo, proprio questo potenziale viene erroneamente considerato come sbocco storico inevitabile, perdendo così di vista i molteplici effetti del controllo del capitale su queste tecnologie.

Tecnologie così radicali, richiedono analisi ancora più radicali.

Analisi che partano da una teoria bassa, dalla comprensione del funzionamento, della capacità e dell’ideologia delle tecnologie emergenti nel nostro quotidiano, in grado di sistematizzare uno sguardo complesso che contesti e recuperi le leve del comando.

In parole povere, per togliere la tecnologia dalle mani del capitale e usarla per riprenderci fiori e miele.

Ceru

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