Ci siete o ci fate?
Eccoci qua. Beppe Sala ha vinto le primarie e sarà il candidato del centro(sinistra) alle amministrative di Milano.
L’abbiamo detto e lo ripetiamo, il centro della nostra riflessione e della nostra azione politica è e rimane costruire contro-potere o meglio contro-poteri e non certo trovare spazi di agibilità dentro le dinamiche del potere, neanche su scala cittadina, ma questo non toglie che qualche riflessione su quello che si muove a livello di politica istituzionale vada fatta, perché anche per noi non è indifferente, e ignorare il contesto in cui ti muovi è il primo sintomo di quell’analfabetismo funzionale nel quale il nostro Paese vanta da tempo un triste primato.
Verrebbe da chiedersi oggi, e alla luce dello scontato risultato delle primarie più autoreferenziali che si siano mai viste, quale sia stato il senso dell’operazione Balzani. Perché noi saremo ingenui e poco avvezzi ai maneggi da dietro le quinte, ma che la candidatura Balzani quando già era in campo quella di Majorino fosse un gigantesco regalo a Sala e al partito della nazione era talmente chiaro che siamo ancora qui a chiederci “ma perché?”.
Certo siamo arrivati a queste primarie milanesi con una generale sensazione di delusione: l’elezione di Giuliano Pisapia aveva determinato aspettative molto alte, non tanto e non solo legate a una possibile amministrazione politicamente sensata della città in senso stretto, quanto alla capacità del neo sindaco di “fare Politica”. Vogliamo dire che fare il sindaco di una grande città significa occupare una posizione di grande importanza nel panorama politico generale, significa avere la possibilità di fare cultura politica e senso comune, di innescare processi innovativi che non rimangano chiusi nei confini amministrativi. Da questo punto vista – ma non solo da questo – l’amministrazione Pisapia è stata decisamente pavida. Una briciola di coraggio politico avrebbe voluto dire, per fare un esempio concreto, approvare un bilancio fuori dal patto di stabilità, magari raccordandosi con altre grandi città che pure avevano suscitato delle speranze, e sfidare il governo a commissariare Milano, Napoli, Roma, Cagliari…. Violare o quanto meno mettere in discussione le strette regole dell’austerità e rivendicare l’importanza di garantire i servizi essenziali in tempo di crisi, aprendo una discussione ampia attraverso un atto amministrativo forte avrebbe voluto dire assumersi la responsabilità di mettere in discussione un dogma che sembra inviolabile ma che è percepito come ingiusto da ampi strati di società e di società civile. Non parliamo degli sfratti e in generale delle politiche abitative, o del numero spropositato di sgomberi difesi con la retorica della legalità a tutti i costi, mancando di fare i conti col fatto che in una società dove le ricchezze sono concentrate nelle mani di pochissimi e si allargano le sacche di povertà, dove i diritti, anche quelli più basilari che pensavamo di aver conquistato una volta per tutte, sono quotidianamente negati, dove ogni giorno scompare una fetta di welfare… beh, in questa situazione la legalità è un concetto davvero labile, e ci sembra che la via per la riconquista dei diritti e di spazi di agibilità politica e sociale sia proprio percorrere quel limite che valica il confine della legalità e rivendica la legittimità di azioni volte a riempire di senso il concetto stesso di democrazia, che in un contesto di ingiustizia sociale perde ogni valore che non sia formale e burocratico…
Ma c’è il secondo punto dolente su cui bisognerebbe riflettere, l’inconsistenza di forme organizzate della società civile, la drammatica incapacità dei movimenti di darsi linguaggi e pratiche intelligenti e caratterizzate da ambizione maggioritaria, la sempre più spiccata atomizzazione del mondo del lavoro e dell’associazionismo che tende alla specializzazione, sono tutti fenomeni coi quali dovremmo fare i conti, perché se per i movimenti non è indifferente l’assetto istituzionale, anche le dinamiche dell’amministrazione sono fortemente condizionate dai rapporti di forza che si riescono a mettere in campo.
In occasione della vittoria di Ada Colau a Barcellona, avevamo scritto che, “oltre al programma radicale costruito dal basso con assemblee nei quartieri cittadini e piattaforme online, oltre alla campagna elettorale trasparente e partecipata, e finanziata col crowdfunding, nella scelta di tante persone di andare a votare potevano aver inciso anche relazioni coltivate nelle battaglie quotidiane per i diritti, nelle campagne, nelle occupazioni, nei luoghi dell’autogestione e della costruzione di conflitto. Che la reputazione collettiva e pubblica di Barcelona in Comu si era costruita anche nella disponibilità a spendersi e rischiare insieme per immaginare nuove possibilità e tracciarne la concretezza, a mettere il proprio corpo e la propria faccia oltre il limite delle compatibilità della democrazia legalitaria e del coro benpensante, rassicurante e decoroso ma anche oltre l’immaginario truce della rivolta individualistica di un’avanguardia minoritaria e presuntamente illuminata”.
A Milano ci siamo invece trovati proprio con questo: un ceto politico autoreferenziale che pensa che partecipazione democratica significhi pulire i muri con le spugnette e un movimento che fa fatica a togliersi di dosso un immaginario da avanguardia minoritaria che basta a se stessa.
Non è quindi un caso la distanza siderale di entrambi dalla vita vera delle persone in carne e ossa.
Noi stiamo provando a interrogarci su come sia possibile oggi costruire percorsi di messa in rete dei conflitti agiti per cambiare le cose, territorio per territorio, battaglia per battaglia, dentro una cornice di valori e immaginari che senza rinunciare alla radicalità dei temi e delle pratiche sappiano comunicare, essere intelligenti e passionali, includere e offrire prospettive gioiose e possibili.
Voi che fate? In questa distanza – dalla città vera e dalla gente – presa come un dato di fatto, adesso che il giochino l’avete perso, ci provate a spiegare al mondo il suicidio a cui quello che resta delle frattaglie della sinistra istituzionale milanese si è dedicata con tanto impegno? O almeno provate a spiegarlo a quella fetta di milanesi che un po’ ci credeva, che è scesa in piazza coi piedi scalzi, che ha sostenuto la giunta arancione al di là di ogni ragionevole delusione, che ancora conserva una cultura dignitosamente di sinistra e avrebbe voluto andare a votare ma è rimasta esterrefatta a guardare il film dell’autodistruzione di chi partiva ai blocchi qualche metro davanti agli altri e ha scientemente deciso di remare con decisione verso la sconfitta.
Perché spiace scendere così tanto terra terra, ma l’unico dubbio che c’è rimasto è se ci siete o ci fate.
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