Da Foucault alla Teoria del Queer

11083772_10206667580035157_219940002976818623_oIn Bicocca sull’incontro sui Generi con Ambrosia: Giovedì 26 Marzo nei corridoi dell’Università di Milano Bicocca si leva un mormorio tra la gente; cinque donne e uomini dall’aspetto insolito si addentrano nella quiete universitaria, creando scompiglio. Sono le Ambrosie, che in una performance creativa si accingono ad entrare in aula per il terzo evento del Ciclo di Incontri sul Genere tenuto dal Collettivo Bicocca.

Cosa meglio di un’ esibizione per spiegare la performatività di genere?

Nel terzo incontro “Da Focault alla Teoria del Queer” insieme a Elisabetta Ruspini, docente di Genere turismo dell’ Università Bicocca, al Collettivo di genere Ambrosia, e agli studenti e le studentesse di Bicocca, abbiamo creato un discorso trasversale nel tempo per comprendere meglio tutti i passaggi storici e teorici che ci hanno portato alla tanto discussa quanto condivisa Teoria Queer.
Abbiamo deciso di iniziare l’incontro partendo da Foucault, filosofo, teorico, intellettuale postmoderno il cui pensiero sulla sessualità nasce come critica alle precedenti teorie freudomarxiste. Il pensiero foucaultiano crea una spaccatura con queste teorie che, unendo psicoanalisi e marxismo, interpretano il potere come repressione sessuale; scopo della politica è perciò quello di liberare la sessualità e con essa i corpi.
Per il filosofo, invece, la relazione tra potere e sessualità prima che essere repressiva , è un rapporto di produzione , di creazione di progenie, di fecondità, di ri-produzione. La critica foucaultiana è quindi da intendersi, secondo la definizione dataci dallo stesso autore in “Ontologia dell’Attualità” (1983), come arte della disobbedienza volontaria, come volontà di non essere governati a questo modo e a questo prezzo. Il discorso, visto come dispositivo retorico reazionario, si spinge fino all’interpreazione dell’omosessualità: in “Volontà di sapere” Foucault afferma che l’omosessualità non è altro che un’invenzione recente; nei contesti ecclesiastici e giuridici medioevali non si parla infatti di omosessualità, bensì di atti omosessuali. Solo con la nascita della psichiatria verso metà XIX secolo si ha una connotazione e declinazione dell’omosessuale come soggetto deviante. Il desiderio omosessuale visto come pulsione verso l’ anale, viene interpretato come legato ad un atto volto al solo godimento, mancante di una progettualità procreativa, come desiderio che vuole il proprio soddisfacimento qui e ora; non produttivo né riproduttivo.
Viene perciò ad inscriversi una linea di demarcazione della sessualità che divide normalità da devianza, una categorizzazione stigmatizzante che polarizza in un binomio i giusti e gli sbagliati, gli etero e gli omo, i normali e i deviati. Il filone di pensiero che si apre con Foucault può essere definito come ottimista costruttivista e prosegue poi con una delle più grandi teoriche del femminismo Judith Butler, che con Gender Trouble (1990) introduce il rivoluzionario concetto della performatività di genere. Partendo dal presupposto che le nostre identità di genere siano socialmente e culturalmente costruite, Butler definisce i modelli di femminilità e maschilità come performance della nostra identità di genere messe in scena nello spazio pubblico, come una serie di atti che seguono un copione prescritto che prende forma nello spazio comune. Questi modelli si basano su stereotipi socialmente condivisi di “ciò che dovrebbero essere femminile”, e perciò da donna, e ciò che invece è da uomo; il tutto in un linguaggio eteronormato. Si vanno ad inscrivere così due tipologie di identità sessuali: i generi “veri”, “normali”, normati o eterosessuali di uomo e donna, e quelli mal riusciti, sbagliati, devianti o omosessuali. Grazie al concetto di dislocazione e decostruzione dei modelli socialmente costruiti, Judith Butler ci invita ad elaborare un nuovo sistema normativo culturalmente e socialmente condiviso, rendendo i nostri generi altri attraverso la creazione di un nuovo spazio e di nuove comunità di riconoscimento.
Un altro filone di pensiero è invece quello delle teorie queer antisociali e si apre con l’attivista e studioso Leo Bersani, per il quale sia Foucault che Butler cadono in errore in quanto non solo utilizzano i mezzi del potere nelle loro analisi ma inoltre non compiono una vera analisi del sesso. “A Foucault non piace il sesso” affermazione molto forte con la quale Bersani vuole porre in evidenza come Foucault politicizzasse il sesso tramite il potere, senza mai analizzare le pratiche sessuali, la pulsione sessuale; ne studia infatti solo le dinamiche che derivano dai legami e dalle norme sociali vigenti. Stesso discorso per Judith Butler la quale analizza e descrive i modelli sociali non interpretando ciò che va oltre la performatività. Per Bersani “ il retto anale del gay è la tomba della soggettività” (“Is the rectum a grave?”, 1987), ovvero l’ omosessuale in quanto soggetto di pulsione sessuale è invaso dalla pulsione stessa ed è agito dalla medesima; questa pulsione essendo in questo caso un’intenzione che prevede un successivo atto non procreativo né produttivo, è legata alla pulsione di morte. Il soggetto queer o deviante, deve partire proprio da questa consapevolezza di negatività, di opposizione alla vita, deve andare contro la cosiddetta “retorica del bambino”, concentrata sul futuro, e rivendicare di stare dalla parte del presente e del godimento fine a se stesso per riappropriarsi della propria esistenza.
È in questa cornice che vediamo la riappropriazione e una nuova declinazione del concetto queer: nei primi anni novanta del XIX secolo nel pieno del manifestarsi dell’HIV e delle campagne contro l’omosessualità che individuano la malattia come minaccia e punizione della devianza, a New York nasce Queer Nation, movimento di rivendicazione omosessuale. Formato da soggetti sieropositivi, il movimento Queer Nation decide di scagliarsi contro la retorica tradizionalista e conservatrice americana e decide di farlo riappropriandosi di un termine utilizzato proprio per categorizzarli ed etichettarli negativamente. “Queer” in Inglese è l’opposto di straight (giusto, dritto), e indica qualcosa di strano, storto, deviato. Fu utilizzato dalla fine dell’ ‘800 come insulto per denominare gli omosessuali al pari dell’ italiano frocio, checca. Grazie alla nuova accezione datagli in quegli anni, oggi questo termine diviene un significante fluttuante estremamente inclusivo da declinare in ogni contesto o da utilizzare in modo generico e con confini volutamente non definiti. E’ un termine indicante la lotta politica e sociale che si scaglia contro razzismo, sessismo, omofobia e transfobia, ma anche omonormatività e transnormatività; una politica ancorata al presente, che non segue strategie precostruite, bensì la contingenza temporale; un discorso che parta dal sé, dalla comprensione dei propri bisogni e dai propri desideri. Le Teorie Queer sono perciò da intendere come analisi dei significati e dei significanti che costruiscono la nostra percezione; sono un modo per criticare e meglio comprendere le nostre identità.
Dopo aver affrontato questo excursus storico sulla derivazione della Teoria Queer, Elisabetta Ruspini ci ha parlato di come il linguaggio patriarcale ed eteronormato sia intrinsecamente legato anche agli ambiti di ricerca oltre che alla sfera della quotidianità e di come possa risultare problematico e faticoso affrontare tematiche di genere nell’ambiente universitario. Un esempio esplicativo per quanto riguarda la ricerca è il metodo di rilevazione statistica della componente femminile utilizzato nelle analisi ISTAT, in cui questa stessa veniva ricavate da una sottrazione alla componente maschile ovvero MF-M= F (lo era un tempo, ma non rispetto alle caratteristiche della componente ma rispetto alla numerosità!).
Questa semplice operazione aritmetica che pare innocua, implicitamente attribuisce alla componente maschile una positività, un’additività mentre a quella femminile una negatività, una sottrazione alla totalità positiva. Per meglio spiegare questo concetto potremmo ricorrere anche ad un mito facente parte della cultura cristiana cioè il “mito della costola d’ Adamo”: la creazione della donna avviene secondo le Sacre Scritture grazie alla concessione di una costola del Primo Uomo; anche in questo caso la donna viene ad intendersi come risultato di una differenza, di una sottrazione dalla totalità perfetta maschile fin dalla sua nascita.
Anche nell’ambiente universitario le perplessità e le difficoltà non sono poche; molti sono i professori e le professoresse che han dovuto argomentare e giustificare i propri discorsi perseguiti nei corsi riguardanti il concetto di genere. Le accuse che venivano e vengono tutt’oggi mosse nei loro confronti sono tutt’altro che di poco peso: più volte è capitato che studenti e studentesse accusassero questi/e stessi/e docenti di praticare propaganda politica sinistroide e dare una sbagliata percezione e visione della questione di genere. “Lei dà una visione distorta della realtà e della sessualità! Sembra quasi ci voglia tutti froci!”. Queste ed altre le affermazioni pesanti mosse verso chi cerca di introdurre progressivamente tematiche utili per un’analisi delle nostre sessualità e di arricchimento del nostro bagaglio culturale. Il nostro sistema scolastico non ci permette un’analisi di queste tematiche negli anni precedenti all’ università, creando uno scenario in cui il sistema italiano è uno dei pochi a livello Europeo a non fornire corsi di educazione sessuale in età adolescenziale che vadano oltre la spiegazione medica e biologica dei nostri apparati riproduttivi. Se non possiamo affrontare queste dimensioni neanche nell’Università, dove potremmo farlo?
Poi è stato il turno di Carlotta Cossutta, dottoranda in Filosofia Politica all’Università di Verona e attivista del Collettivo Ambrosia, la quale ha deciso di iniziare il suo intervento partendo da una riflessione di stampo hegeliano: come il filosofo, infatti, anche la Butler propone una concezione dell’identità come di un processo basato sul riconoscimento da parte dell’altro. Riferendosi alle teorie di Bersani, Carlotta sottolinea una differenza tra l’atto sessuale maschile, in cui l’eiaculazione rappresenta una dispersione di seme, e quello femminile, non caratterizzato da alcuno “spreco”. Pensare di proporre una teoria antisociale a partire dalla pulsione di morte presente nell’atto sessuale, quindi, sembra più immediato da un punto di vista maschile che da uno femminile.
Siamo poi passat* ad una parte più pratica ed interattiva e per farlo Carlotta ha deciso di iniziare con un quesito apparentemente semplice: “ Alzi la mano chi si sente uomo!”.
Curioso il fatto che tra i ragazzi che hanno alzato la mano, la motivazione più frequente al proprio gesto fosse “perché ho delle caratteristiche che sono da uomo e quindi non mi sono mai posto il problema di essere altro”. Ci sono state, invece, molte meno ragazze che hanno accettato di aderire al genere “donna” alla medesima domanda posta loro; molte le affermazioni di dissociazione a queste categorie da parte delle e degli astenuti per i quali la posizione si può riassumere nella seguente affermazione “se avessi chiamato il mio nome, avrei alzato la mano; io sono io. Ho delle caratteristiche da “uomo” e delle caratteristiche da “donna”, quindi anche se sono etero non mi sento di definirmi appartenente a nessuna di queste due categorie”.
Mischiate tra gli studenti e studentesse c’erano le altre attiviste di Ambrosia che vestite in modo da enfatizzare i modelli odierni di maschilità o femminilità con parrucche colorate, trucco e quant’altro, ci hanno lanciato degli interessanti spunti di riflessione sugli stereotipi sociali e sulle divisioni “naturali” che vanno a definire chi è uomo e chi è donna nella nostra società globalizzata e occidentale.
Riprendendo una nozione introdotta da Gayle Rubin in Traffic in Women. NOTES ON THE “POLITICAL Economy” of sex, vorremmo porre in evidenza come nel nostro sistema sociale l’ organizzazione sociale del sesso biologico e la determinazione sociale di femminilità e mascolinità siano componenti distinte e come “le impostazioni di organizzazione culturale sui fatti della procreazione biologica” (Rubin, 1975) siano organizzate al servizio dell’ eterosessualità obbligatoria. Le divisioni dei ruoli sociali attuali basate su differenze di sesso, che partono dalla partecipazione o meno al lavoro domestico di tutti gli elementi del nucleo famigliare a finire con i riconoscimenti giuridici differenti o i diversi salari, hanno lo scopo di creare una dipendenza e di rendere l’unione tra uomo e donna necessaria;insomma “rappresenta un tabù verso tutte le diverse organizzazioni sessuali non eterosessuali” ( Marco Alberio, 2011).
Partendo da questi spunti di riflessione vogliamo accrescere la nostra coscienza individuale e collettiva a partire da noi, mettendoci in discussione e cercando di decostruire tutti quegli stereotipi che vincolano la capacità d’ espressione delle nostre sessualità e di conseguenza delle nostre persone, e per farlo continueremo ad organizzare momenti di incontro e discussione come quelli creati al nostro Ciclo di Incontri sul Genere.
Infine vi ricordiamo il quarto e ultimo incontro Giovedì 9 Aprile dove creeremo insieme all’antropologo Leandro Sgueglia e alla rete NoExpoPride un discorso su che cosa voglia dire essere uomo e donna nella metropoli, analizzando anche tutti quei modelli di mascolinità e femminilità che Milano ci sta offrendo in questi mesi attraverso la grande vetrina globale di Expo2015.
Collettivo Bicocca

Tag:

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *