Difendiamo la res publica
Per l’attuazione del risultato referendario, per la riappropriazione sociale e la tutela dell’acqua e dei beni comuni, per la pace, i diritti e la democrazia, per un’alternativa alle politiche d’austerità del Governo e dell’Europa. Sono queste le ragioni che hanno portato il Forum italiano dei movimenti per l’acqua a lanciare una grande manifestazione nazionale in difesa della la res publica che si terrà il prossimo due giugno a Roma.
Milano in Movimento ha colto l’occasione per ricostruire insieme a Luca Martinelli, giornalista di Altreconomia e attivista del Forum dei Movimenti per l’Acqua, la storia delle privatizzazione del servizio idrico integrato nel nostro Paese.
Buongiorno Luca, ci aiuti a ricostruire le tappe della privatizzazione del servizio idrico in Italia?
Il processo di privatizzazione del servizio idrico integrato in Italia è iniziato nel 1994, con la legge Galli, che nel tentativo di uniformare la legislazione del settore in tutto il paese, apriva la possibilità di affidare il servizio a soggetti partecipati dal privato.
Questo non significa che prima l’intervento del privato nel servizio idrico non ci fosse: alcune società private sono nate ottanta se non novanta anni fa e un alcuni territori la gestione è privata dagli anni ’20 o dagli anni ’30.
Tuttavia la legge Galli rappresenta un momento in cui si assiste da un lato a una spinta per l’organizzazione del servizio su una scala almeno provinciale (attraverso gli ATO) e dall’altro all’individuazione di unico gestore per ciascun ambito territoriale, gestore che può essere anche un soggetto privato.
Quali sono state le tappe successive?
La legge Galli è stata recepita nelle varie regioni, ciascuna delle quali ha definito le modalità di ingresso dei singoli privati. Questo percorso è andato avanti dalla seconda metà degli anni ’90 fino ai primi anni del 2000.
Con il governo Berlusconi si è assistito a un i di approvare delle norme che rendessero sempre più stringente questa opzione per il privato. Fino ad arrivare a una finanziaria del 2003 in cui il ministro Matteoli tentò di fare inserire addirittura l’obbligo a privatizzare.
Durante il governo di centrosinistra, non si è fatto nulla per limitare la capacità di muoversi verso il privato e successivamente, con il Governo Berlusconi del 2008 arriviamo al decreto Ronchi.
Che cosa prevedeva il decreto?
Il decreto Ronchi di fatto obbligava alla privatizzazione delle società di gestione del servizio idrico integrato. O perlomeno a privatizzare la relazione tra ente locale e società di gestione del servizio idrico integrato.
Durante la campagna, ai referendari veniva contestato il fatto che anche un soggetto pubblico potesse benissimo partecipare alla gara per ottener la concessione del servizio idrico integrato, ma anche se la gestione è affidata a un soggetto controllato dagli enti locali, la relazione che si instaura tra il comune come ente concedente e il gestore è di tipo privatistico, basata sul risultato di una gara d’appalto.
Verso quale direzione si procede oggi, dopo il referendum?
Il tentativo del legislatore è di andare avanti sulla linea del decreto Ronchi. Ed è per questo che è importante la manifestazione del 2 giugno. Si va avanti magari in maniera meno evidente, nel senso che non c’è nessuna legge che obbliga a privatizzare, come sostanzialmente faceva la Ronchi. Ma nell’ultimo decreto liberalizzazioni, si trova un comma che rischia di mettere in ginocchio le società pubbliche di gestione del servizio idrico integrato e quindi di rendere realmente difficile il processo di pubblicizzazione per il quale nel Paese ci stiamo mobilitando.
Questo comma dice che le gestioni affidate a società per azione a totale capitale pubblico – che oggi in Italia sono più della metà – sono comunque rimesse al patto di stabilità. Quel patto che strangola la capacità di spesa degli enti locali e che stabilisce che la spesa per gli investimenti non può superare di un certo limite l’indebitamento. Con un meccanismo del genere di fatto si sta dicendo che i gestori pubblici non potranno fare gli investimenti, ma siccome l’unica certezza che si ha è che gli investimenti nella rete sono necessari, allora questo comma diventa forse ancor più pericoloso. Perché contro una legge che obbliga a privatizzare come la Ronchi è facile mobilitarsi, ma contro un meccanismo così subdolo è molto più difficile riuscire ad attirare l’attenzione.
Come è stata gestita dai media questo processo di privatizzazione?
C’è stato un tentativo di travisare in maniera significativa alcune scelte di fondo del percorso referendario. Ad esempio quella di non allargare la base del comitato ai partiti politici, una scelta dettata dalla volontà di non allontanare nessuno dal movimento. Gli organi di informazione hanno tentato fin dall’inizio di legare il referendum ad alcuni partiti, penso ad esempio all’Idv.
Sui contenuti, invece, non c’è stata proprio la volontà di capire cosa si andava a discutere, a proporre e ad analizzare. Prima di tutto perché affrontare i nodi posti da referendari avrebbe senz’altro comportato la necessità di mettere in discussione un sistema economico e alcune prassi amministrative ormai consolidate. Cosa che non si ha affatto intenzione di fare.
Ti faccio un esempio: su Altreconomia pubblicammo una riflessione su Cassa depositi e prestiti, un soggetto che ha 130 miliardi di euro di liquidità. Soldi dei cittadini italiani che però ci dicono non possono essere investiti sulla rete idrica o sul servizio idrico integrato nell’ottica di prestiti a tasso agevolato per favorire gli investimenti sulla rete. E non si capisce perchè.
In generale si può dire che c’è stato un vero e proprio tentativo di svilire le posizioni dei referendari e di renderle una caricatura.
Parliamo un po’ dell’attuazione del risultato referendario…
Per quanto riguarda il primo quesito sostanzialmente l’attuazione referendaria si può realizzare soltanto discutendo in Parlamento la legge di iniziativa popolar presentata nel 2007. Una legge che è stata firmata da 400 mila cittadini italiani, che era stata elaborata dal Forum italiano per i movimenti dell’acqua e che decreta che la gestione dei servi idrici integrati possa essere fatta solo da soggetti di diritto pubblico.
A livello locale qualcuno sta cercando di procedere in questo senso, penso ad esempio a Napoli, dove è stata deliberata la trasformazione della società che si chiamava Arin nella società Acqua bene comune (ABC), ente di diritto pubblico. Si tratta di capire se se una scelta del genere presa a livello locale possa essere considerata incostituzionale, perché credo che qualcuno stia provando a fare ricorso contro la delibera del Comune di Napoli.
E per quanto riguarda il secondo quesito?
L’attuazione del secondo quesito referendario obbliga necessariamente a ripensare il meccanismo del tariffario del servizio idrico integrato, ovvero a rimettere in discussione l’idea secondo la quale gli investimenti in questo servizio debbano essere coperti dalla bolletta. Togliere la remunerazione del capitale investito dalla tariffa di per sé significa rimettere in discussione tutto il meccanismo finanziamento degli investimenti e obbliga ad immaginare che il servizio idrico integrato possa essere coperto anche dalla fiscalità generale. Come del resto è scritto nella legge di iniziativa popolare di cui si parlava.
L’architrave su cui si appoggia la privatizzazione, ovvero la privatizzazione del finanziamento degli investimenti sulla rete idrica, è seriamente messa in discussione dal secondo quesito referendario ed è per questo che è molto più difficile realizzarlo e che è molto importante che ci siano iniziative come la campagna di obbedienza civile.
Si tratta di una campagna attiva in dodici regioni che incoraggiando a ricalcolare la bolletta e a ridefinire cosa si paga e cosa non si paga, continua a fare informazione sui temi del referendum.
Sabato 2 giugno, ore 15.00 Piazza della Repubblica, Roma
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