INSIDE ISIS, origini e obiettivi tra contesa regionale e retorica interventista

Lunedì 23 Marzo si è tenuta presso l’aula U6-13 dell’Università Bicocca l’assemblea pubblica di approfondimento e dibattito sulla storia dell’I.S. (Islamic State). L’obbiettivo dell’incontro è stato portare un po’ di chiarezza e spunti di riflessione su un tema che da alcuni mesi è al centro della cronaca, ma con informazioni veicolate da mass media volontariamente miopi, che tramite notizie parziali e selezionate contribuiscono a creare un clima di paura e disorientamento strumentale. Abbiamo analizzato origini e natura sociale di questo gruppo jihadista, i fattori in campo che hanno determinato la sua ascesa e gli attori protagonisti di quella che rischia di rivelarsi la nuova chimera del Medio Oriente. L’iniziativa si è strutturata in 4 interventi, il primo, tenuto dal docente di Istituzioni di Cultura araba Vermondo Brugnatelli, ha introdotto l’argomento tramite la spiegazione di alcuni aspetti storico-culturali del Medio Oriente, ponendo le premesse per una riflessione più esauriente. I successivi 3 contributi alla discussione sono stati portati dai membri del Collettivo Bicocca: Davide Viganò, Alberico Bernardi, Davide Salvadori. Ripercorriamo insieme le tappe dell’incontro, per lasciare nero su bianco il segno di un lavoro di analisi che non vuole esaurirsi in un pomeriggio, ma proseguire lungo tutto il corso di questa intricata vicenda.

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Possiamo ricondurre le origine dell’Is al 2003, infatti nasce dall’arcipelago della resistenza islamista sunnita contro l’occupazione americana dell’Iraq iniziata il 20 Marzo 2003. Il nome del primo gruppo è “Al-Tawhid wa-al-Jihad” fondato dal giordano Abu Musab Al Zarkawi, ucciso durante un bombardamento USA nel 2006. Poi divenuto AQI (Al Qaeda in Iraq); nel 2007 attraversa una fase discendente, anche dovuta alla collaborazione dell’esercito USA a guida del generale Petraeus con le principali tribù sunnite. Nel 2011 riprende forza e vede nella guerra civile siriana un’occasione per fondare il Califfato, ma nel frattempo la morte di Bin Laden ha determinato un cambio di direzione in Al Qaeda, il cui leader diventa Al Zawahiri, che a causa di divergenze ideologiche, in particolare legate agli obbiettivi di purificazione interna dell’Islam (che si rifletteva in feroci e settarie campagne contro tutti i gruppi non sunniti), impone al gruppo di non inserirsi nel conflitto in Siria, limitando la sua azione all’Iraq, per lasciare ad Al Nusra il protagonismo in Siria. Abu Bakr al-Baghdadi si oppone a questa direttiva e per la prima volta il leader di un gruppo affiliato ad Al Queda disobbisce alla linea del centro. Nel 2013 il gruppo si ribattezza ISIL, includendo così la regione del Levante cioè l’area del Mediterraneo orientale nei suoi obiettivi espansionistici (Siria, Giordania, Palestina, Libano, Israele e Cipro). La rottura definitiva tra i due gruppi avviene nel Febbraio del 2014 con l’espulsione dell’ISIL da Al Queda mettendo la parola fine ad una collaborazione di interesse più che di ideologia condivisa.

Nel 2014 comincia l’avanzata in Iraq, dove trova l’appoggio di diverse forze sunnite emarginate e represse dal governo iracheno, il cui esercito si ritira disordinatamente abbandonando nelle mani dell’ISIS un vero e proprio arsenale (fucili M4 e M16, lanciagranate, visori notturni, mitragliatrici, artiglieria pesante, missili terra aria Stinger e Scud, carri armati, veicoli corazzati Humvies, elicotteri Blackhawks, aerei cargo) dato dagli USA agli ex-governi fantoccio sciiti sostenuti dopo la caduta di Saddam Hussein. Così l’ISIL sotto la guida di al-Baghdadi si costituisce in Califfato assumendo la forma di un vero e proprio Stato che riscuote le tasse, paga i suoi miliziani e dipendenti, amministra centrali elettriche e vara “piani economici”, per esempio riguardo la produzione di grano, liberandosi dalla dipendenza da finanziamenti di stati stranieri.

Riguardo la gestione del territorio iracheno durante l’occupazione americana ci sono da fare alcune considerazioni. I governi fantoccio post-Saddam hanno duramente represso le fazioni sunnite della regione, rafforzando il clima di opposizione al governo centrale. In questo scenario l’esercito statunitense ha giocato un ruolo di primo piano, assicurando la stabilità col pugno di ferro. Sono ormai note le atrocità commesse nella “Prigione Centrale di Baghdad”, precedentemente nota come prigione di Abu Ghraib dove centinaia di iracheni hanno subito pesanti torture. I crimini di guerra commessi dall’esercito americano durante tutto il periodo dell’occupazione hanno alimentato linee politiche integraliste, ne è un esempio al-Baghdadi che durante la prigionia in un carcere americano in Iraq dal 2004 al 2009 ha maturato il suo spietato progetto di conquista. Oltre all’attuale leader sono numerosi i miliziani passati per le carceri americane e che successivamente alla prigionia hanno radicalizzato le loro posizioni ampliando le fila dei numerosi gruppi jihadisti che da un decennio si contendono il territorio alla ricerca di un maggiore peso locale.

Rispetto la Siria invece la guerra civile si rivela un importante momento di crescita per il gruppo jihadista, che a seguito ad alcune importanti conquiste territoriali assume il nome ISIS (Islamic State of Iraq-Siria). Secondo alcune stime il numero di soldati dell’ISIS è aumentato notevolmente tra Agosto e Ottobre 2014, passando da circa 10.000 uomini a 20.000/30.000. Le ragioni di questa impennata sarebbero diverse; la forza dimostrata a seguito delle conquiste territoriali, lo stipendio dei soldati (circa 700 $ al mese, tra i più alti nella regione), la solidità finanziaria ottenuta in seguito al controllo di diversi pozzi petroliferi e centrali elettriche, che per accumulare capitale riforniscono di energia i territori dalle forze lealiste (Assad) contro cui l’ISIS combatte, mettendo in luce una delle grandi contraddizioni del capitalismo, l’interdipendenza degli stati e il perenne conflitto al fine di strappare controllo e profitto da parte di gruppi di potere organizzati. Una mappa risalente al 2006 trovata dal -Washington Institute for Near East Policy- prova che da anni l’organizzazione pianificava una strategia economica, ambendo a finanziarsi tramite il controllo dei pozzi petroliferi, zona privilegiata nelle conquiste territoriali. C’è da considerare che se in Siria si sono fatti strada verso i giacimenti petroliferi senza troppi problemi in Iraq la cosa potrebbe risultare più problematica, in quanto le zone a maggiore densità petrolifera sono a maggioranza sciite. Gran parte dei nuovi reclutati provengono dall’estero, infatti alcune stime mostrano una composizione dell’esercito molto varia, tra il 50% e il 70% proverrebbero dalle regioni del Medio Oriente e del Nord Africa, tra il 20% e il 30% dai vicini paesi a maggioranza islamica come Pakistan e Cecenia, e il 15% circa dai paesi occidentali (in particolare: Belgio, Inghilterra, Francia, Paesi Bassi e 400 dalla sola Germania) imponendo a tutti i paesi una riflessione sull’incapacità di attuare politiche di integrazione e sulla condizione di degrado e marginalizzazione degli stranieri nelle proprie città, fattore che probabilmente in alcuni casi ha dato adito a posizioni integraliste che cercavano nel disagio sociale e nella ghettizzazione il terreno fertile per una propaganda anti-occidentalista e un richiamo a un senso di appartenenza panarabo.

Lo scenario siriano è controverso e sfaccettato e il ruolo dell’ISIS nel conflitto non può essere analizzato senza una ricostruzione del quadro di interessi strategici che si cela dietro un’area ricca di interessi geopolitici che dai tempi degli accordi di Sykes-Picot, nel 1916, vede un ruolo attivo delle potenze imperialiste occidentali ieri, e non solo oggi. La Siria è un alleato storico dell’Iran e si possono collocare in un’area anti-atlantista. L’Iran in quanto potenza dal peso determinante nell’area ha sempre sostento il governo di Bashar al-Assad, come in passato sostenne quello del padre, Afez Assad. Infatti all’esplosione della guerra civile l’Iran ebbe fin da subito un ruolo attivo nelle forze lealiste, insieme agli Hezbollah (gruppo attivo in Iran, Siria e Libano). A sostegno di questo fronte si sono schierate apertamente la Russia di Putin, altro attore dell’asse anti-atlantista, l’Iraq di Jalal Talabani e la Corea del Nord. Sono noti gli interventi di Putin contro la costituzione di una no-fly zone sulla Siria fatti in diverse conferenze internazionali, citando anche, in occasione di un incontro pubblico con Cameron, la crudeltà di alcuni gruppi presenti nel fronte dei ribelli, che avevano anche compiuto atti di cannibalismo a fini terroristici dopo un’esecuzione. Quel gruppo era prossimo ad aumentare di peso e finire sulle prime pagine di tutti i giornali con il nome di ISIS. Altri stati che hanno appoggiato le forze pro-Assad, ma in maniera indiretta sono Cina, Venezuela e Algeria. Il fronte dei ribelli è altrettanto composito, con la differenza che oltre a diverse forze esterne vede diversi gruppi e una forte divisione anche al suo interno. L’Esercito Libero Sirano è il gruppo più rilevante, è composto anche da alcuni ex-reparti dell’esercito governativo ed è la forza che è stata appoggiata dagli USA. Il gruppo islamico più rilevante fino all’affermarsi dell’ISIS è Al Nusra, oggi referente di Al Queda in Siria. Poi c’è l’ISIS che fino al 2014 ha combattuto fianco a fianco con gli altri gruppi del fronte ribelle, garantendosi la possibilità di gettare le basi per la sua affermazione sul territorio. Altri piccoli gruppi, molti di estrazione islamista hanno partecipato al fronte, senza avere un ruolo determinanti, come il Fronte Islamico; diversi di questi, quando sunniti sono stati successivamente inglobati dall’ISIS. Le potenze che hanno sostenuto apertamente questo fronte sono l’Arabia Saudita, il Qatar, gli USA e la Turchia. In modo indiretto invece anche Francia e Inghilterra (gli stessi protagonisti degli accordi Sykes-Picot nel 1916, disegnando gli attuali geometrici confini).

Il ruolo di questi paesi e stato in più occasioni ambiguo rispetto all’ISIS. Non è azzardato ipotizzare che lasciare spazio ad una forza sunnita, in un contesto di alleanza anti-atlantista tra due paesi sciiti, potesse avere il ruolo di destabilizzare un blocco difficilmente penetrabile dalle potenze occidentali, in primo luogo gli Stati Uniti. O che un contesto di guerra permanente facesse più comodo della stabilità in una zona sotto l’influenza di altri blocchi. Sono una prova i bombardamenti di contenimento fatti dagli USA al confine con Kobane, bombardamenti che in un’area desertica come quella potevano diventare fatali, risultavano studiati per mantenere uno stato di conflitto “controllato” in un’area che nessuno, a parte la popolazione curda e le organizzazioni politiche che la sostengono, ha intenzione di pacificare. Come già con i talebani in Afghanistan e in diverse altre occasioni i piani dei governi difficilmente si concretizzano di fronte alla complessità dei reali contesti sociali, inciampando costantemente nelle buche da loro stessi scavate, dunque una sorta di effetto collaterale della loro miope politica internazionale, costantemente guidata da calcoli politici della prospettiva massima di qualche decennio, di fronte invece a fenomeni politici che hanno storie secolari. Fortemente ambiguo è stato anche il ruolo della Turchia, che nonostante un ferreo controllo al confine, a Suruc, per impedire il passaggio di Curdi residenti in Turchia che potevano unirsi alla resistenza di Kobane e all’esperienza politica del Rojava, ha permesso in diverse occasioni il passaggio del confine di combattenti che si sono uniti all’ISIS. Questo al fine di schiacciare la regione autonoma del Rojava, che può dare forza al movimento indipendentista curdo in Turchia, che conta il maggior numero di Curdi della regione. Un altro esempio esempio di connivenza è l’atteggiamento delle milizie Peshmerga di Barzani, leader del Puk, Partito Democratico del Kurdistan, che governa la regione Nord dell’Iraq (Kurdistan meridionale) dal 2003, successivamente all’invasione americana. Il PUK rappresenta l’ala nazionalista del movimento curdo e in diverse occasioni ha collaborato con l’esercito americano dimostrando di essere parte del disegno di controllo politico-militare delll’Iraq. Questo partito indipendentista curdo ha chiaramente ambizioni nazionali e come ogni gruppo politico nazionalista non ha alcuna intenzione di vedere crescere i suoi avversari, in particolare nel caso del PKK, partito di estrazione marxista-leninista che lega la causa curda alla lotta anticapitalista dalle prospettive internazionaliste. Per questo in occasioni di diverse operazioni militari non è intervenuta di fronte al passaggio dell’ISIS sul suo territorio, nonostante stessero andando proprio a massacrare i loro fratelli curdi e a compiere quei crimini contro l’umanità che tutti conosciamo.

La Siria attualmente sta attraversando una pesantissima crisi umanitaria, l’ONU stima 12,2 milioni di persone bisognose di assistenza umanitaria nel paese, 5,6 milioni dei quali bambini. E’ attualmente il paese vittima della più grande crisi di sfollamento al mondo, con 7,6 milioni di persone che hanno perso la casa ma sono ancora nel paese e altre 4 milioni che sono fuggite oltre i confini, in particolare in Libano, Turchia, Giordania, Iraq ed Egitto. Inoltre la Coalizione #‎WithSyria, formata da 130 organizzazioni umanitarie ha rivelato che a 4 anni dall’inizio del conflitto l’illuminazione del paese si è ridotta dell’83%.

La nuova frontiera del Califfato è la Libia, dove però la situazione è tutt’altro che semplice. Dopo il riconoscimento da parte di al-Baghdadi dell’autoproclamato Califfato di Derna, annunciato nell’Ottobre 2014 dal Consiglio Islamico giovanile di Derna, il gruppo jihadista ha fatto un’ulteriore passaggio, superando definitivamente le logiche regionaliste, per proporsi come una realtà dalle effettive mira espansionistiche. Da questo momento è più corretto parlare semplicemente di I.S. ( Islamic State), in quanto purtroppo la presenza dell’organizzazione non è limitata ai territori di Iraq e Siria. Il reale peso dell’I.S. in Libia necessiterebbe di un’analisi a sé, ma la sua avanzata è messa costantemente in discussione dal conflitto aperto tra le numerose milizie, laiche e non, attive in tutte le tre regioni del paese (Tripolitania, Cirenaica e Fezan). Considerando che in Libia sono presenti circa 140 diverse tribù è facile immaginare che non sarà semplice raggiungere la stabilità. L’1 e il 2 Aprile 2015 sono iniziate delle pesanti offensive contro l’I.S. e i gruppi ad esso affiliati nei pressi di Sirte, in mano all’I.S. da Febbraio 2015. Attualmente le milizie, filo-islamiche, che stanno tentando la presa della città sono a 16 chilometri. Dai primi di Marzo invece sono in corso a Derna delle operazioni militari contro l’I.S. che a seguito di alcuni pesanti bombardamenti sta ritirando sulle montagne accanto alla città. Obiettivo dell’attacco, sferrato dal Governo di Al-Thani dell’esecutivo di Tobruk (unico riconosciuto a livello internazionale) sono anche i gruppi Ansar Al Sharia e Fajair Libia.
Anche se in Iraq e Siria l’organizzazione è più forte che in Libia non bisogna pensare che abbiano la completa egemonia, infatti è comprovata l’alleanza con alcuni gruppi baathisti (nazionalismo panarabo), dimostrazione che da solo non riesce ad amministrare il territorio rivendicato, ma quest’alleanza molto probabilmente si rivelerà temporanea.

L’I.S. è indubbiamente una formazione feroce e sipetata, una delle più sanguinarie organizzazioni degli ultimi decenni che ricordano per le loro atrocità i sicari nazisti dello scorso secolo. Ci sono alcuni elementi di novità nell’operato di questo gruppo che è interessante analizzare più di altri. Uno di questi elementi è l’utilizzo dei social network a fini propagandistici. Già in passato diverse società hanno praticato le uccisioni pubbliche come atto dimostrativo, anche in Francia nel XVIII secolo, come analizzato da Michel Foucault, i condannati venivano sottoposti al supplizio, che consisteva nell’essere torturati e squartati pubblicamente nelle piazze delle città, in Inghilterra l’esposizione pubblica dei cadaveri sventrati è stata abolita solo nel 1843. Ma l’elemento di novità qui è la costruzione delle scene al fine di creare una Hollywood del terrore a fini propagandistici. Il sociologo Guerino Nuccio Bovalino, ricercatore del Ceaq Sorbonne, studioso dei media e dell’immaginario spiega che lo Stato Islamico ci impressiona come un pericolo realistico proprio perché concepisce le sue esecuzioni come un film “rappresentate come un videogioco di guerra, le decapitazioni dell’ISIS sono raccontate con strumenti sofisticati di trailer cinematografici e scenografie hollywoodiane per esaltarne il sangue reale che viene in superficie. Immagini che ci toccano realmente, sfuggendo alla nostra capacità consolatoria di sentire distanti quei corpi”.

Questi elementi sono preoccupanti e devono far riflettere sul ruolo dei mass media nella società contemporanea. Rispetto alla terribile distruzione di opere d’arte e reperti archeologici da parte dell’I.S. va fatto un discorso diverso, anche se sono anch’essi ripresi episodi simili si sono già verificati nella storia, recente e non, quello che colpisce (rispetto la storia recente) è la frequenza di questi barbari atti. Per fare alcuni esempi nel 2003 i talebani avevano distrutto le 2 antichissime statue dei Buddha di Bamiyan, mentre per scavare nel passato nel VII secolo a Roma i cristiani hanno convertito il pantheon in basilica, distruggendo tutti gli antichi monumenti pagani presenti all’interno.
Fin dalle origini dunque Al Zarkawi ambiva a creare uno califfato islamico sunnita e come spiega lo stratega jihadista Abu Bakr Naji, in un libro pubblicato nel 2004, la strategia è stata quella di portare avanti una campagna di continui sabotaggi costanti a siti turistici e centri economici di stati musulmani, per creare una rete di “regioni della violenza”, in cui le forze statali si ritirassero sfinite. Questo spiega i recenti inviti ad attaccare le zone turistiche, ma anche i primi attentati, come l’autobomba esplosa nel 2003 a Najaf, in Iraq, in una moschea durante la preghiera del venerdì. L’esplosione provocò la morte di 125 sciiti, tra cui l’ayatollah Muhammad Bakr al-Hakim, potenziale garante di una leadership moderata nel paese. La tattica del disordine e del terrore sono ancora all’ordine del giorno, le autorità irachene sostengono che i combattenti dell’ISIS starebbero usando bombe al cloro, come prova hanno diffuso alcune immagini di esplosioni color arancione. Questo tipo di arma chimica terrorizza i nemici perché può uccidere per soffocamento anche distanza, bruciando i polmoni e spinge alla ritirata. “Fonti militari” riferiscono che molte armi chimiche sarebbero state trafugate dai magazzini del regime di Muammar Gheddafi in province centrali e meridionali del Paese.

Riguardo l’aspetto ideologico è interessante considerare che negli anni c’è stata un’evoluzione dell’ideologia e anche attualmente sono presenti diverse correnti, che si differenziano per la diversa attenzione che danno all’interpretazione di alcun versi degli ahadith (narrazioni).
La bandiera nera con scritte bianche in arabo non è un “marchio esclusivo” dell’I.S. In essa è scritto: “Non vi è altro Dio all’infuori di Allah e Muhammad è il Suo Messaggero”, ed è la frase che si trova sulla storica bandiera islamica (Ar-Raya al-Islamiyya), bianca su sfondo nero o viceversa. Ma è anche la stessa dell’Arabia Saudita, che ha aggiunto sotto l’espressione una spada e utilizzato il colore verde dell’Islam, che rappresenta la jannah (il paradiso).

Essendo portatrice di un messaggio che si rifà, dal punto di vista geopolitico, all’idea di Califfato, questa bandiera è stata ed è utilizzata da diversi movimenti islamici, in particolare sunniti. Quella salafita è un’ideologia che non riconosce gli attuali confini tra i Paesi arabi e rimanda direttamente al primo secolo dell’Islam,così l’unica bandiera che è in grado di rappresentare graficamente questa ideologia e accomunare le diverse popolazioni musulmane, è la bandiera storica del Califfato.

Questa variante, usata da I.S. e al-Shabaab (“Giovani” gruppo attivo in Somalia), sottolinea attraverso il cerchio la supremazia di Allah sul Profeta. Le origini del vessillo nero (Al Raya) risalgono a Muhammad (Maometto), si dice che avesse origine dal velo nero che copriva il capo della terza moglie Aisha, sua prediletta (sposa bambina di Maometto – 6 anni – unica in vita fino alla sua scomparsa).

Al Raya ha anche un significato escatologico. Alcuni ahadith (narrazioni) riportano che l’esercito che preparerà la strada all’arrivo del Mahdi (profeta), in Khurasan (attuale Afghanistan) avrà delle bandiere nere. Tratti da ahadith: il Messaggero di Allah ha detto: “Bandiere Nere usciranno di Khorasan, e nulla li fermerà”, (Tirmidhi, Ahmad Musnad). La bandiera nera è dunque la bandiera per il Jihad. Il vessillo dell’I.S. è composto da due elementi.

Nella parte superiore c’è la Shahada cioè la testimonianza con cui il fedele musulmano dichiara di credere in un Dio Uno e Unico e nella missione profetica di Muhammad: “Non c’è altro Dio che Allah e Muhammad è il suo profeta”.

Nella parte inferiore è posto il sigillo del profeta Muhammad (Maometto). Nello specifico il sigillo è quello che compare su una copia di epoca ottomana della presunta lettera di Muhammad ai capi di stato suoi contemporanei per invitarli a convertirsi all’Islam. L’I.S. è quindi un fenomeno complesso, dalla storia relativamente recente, ma che affonda le sue radici in secoli di lotte religiose, territoriali e di predominio economico. Una delle tante frazioni del potere che, usando un’efferata violenza settaria e approfittando di un contesto favorevole sta cercando di avanzare in un’area oggetto di contesa da decenni. I processi sono in corso e frutto di possibili trasformazioni. I loro obiettivi sono confusi e mutabili nel tempo ma estremamente ambiziosi, per esempio in una cartina tra i territori su cui ambisce a imporre il suo controllo c’è anche il Nordafrica. L’aggravarsi della crisi irachena ha spinto il governo iraniano a organizzare le proprie forze, mandando già 500 uomini delle forze Quds, il suo più temibile corpo d’elite specializzato in missioni all’estero. I guerriglieri delle YPG e le guerrigliere delle YPJ hanno già respinto una volta degli efferati attacchi dell’I.S, in autonomia e con le forze più che dimezzate dagli impedimenti del governo turco. Gli scenari possibili sono diversi: una guerra regionale, un intervento estero, l’affermazione delle milizie popolari locali liberate dal giogo religioso e delle potenze. Un modello sociale alternativo in Medio Oriente è possibile, alternativo allo sfruttamento capitalista complice dei conflitti locali, al sistema dell’odio e dell’intolleranza. Questo modello esiste già nella pratica, nella regione autonoma del Rojava. Riuscirà questo esempio ad estendersi in una regione così tormentata dalle faide religiose ed economiche? Esiste la possibilità che partiti politici come il PKK estendano la loro influenza e diffondano le loro posizioni in quell’area? Qual’è il reale peso e la solidità di questo nuovo possibile riferimento politico?

 

Collettivo Bicocca

Davide Viganò

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