Reddito per tutt@?Idee/spunti/riflessioni con Pino Tripodi

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Quarta tappa del nostro percorso di ragionamento sul reddito. Oggi è la volta di Pino Tripodi. Buon lettura

 

Cos’è il lavoro?

Il lavoro può essere definito sulla base di tre diverse categorie.

1) Il lavoro come funzione astratta.

2) Il lavoro come norma e/o consuetudine.

3) Il lavoro come funzione concreta.

1) Per lavoro come funzione astratta si intende qualsiasi attività di produzione di beni e servizi. Il problema è che sulla base delle relazioni sociali date, alcune attività produttive di beni e servizi (es. quelle dell’operaio di fabbrica, dell’impiegato) vengono retribuite, altre invece (es. le attività degli studenti, dei casalinghi) vengono compiute senza contropartita reddituale. Per altre ancora, vi è chi viene retribuito e chi no pur svolgendo la medesima attività (si pensi agli scrittori, ai poeti, agli artisti di varia natura). Ogni società legittima alcune funzioni produttive, le include nel suo campo di legittimità lavorativa e ne esclude altre.

Chi lavora non è separato da chi non lavora da una barricata oggettiva di funzioni ma da ruoli sociali determinati che il corpo sociale nella sua interezza o in parte di esso riconosce come meritevoli di retribuzione.

Il lavoro non è una funzione oggettiva invariabile, ma è socialmente, storicamente e soggettivamente determinato.

La platea dei lavori e dei lavoratori muta storicamente. Muta in funzione delle tipologie di attività e delle gerarchie in base alle quali si decide la quantità maggiore o minore di retribuzione. La retribuzione del lavoro dipende da tanti fattori – come l’essere compiuto per conto d’altri – che variano nel tempo.

Non è tanto la quantità e la tipologia di attività, quanto la funzione e la posizione gerarchica nella società che legittimano il lavoro e diversamente lo remunerano.

Ogni società mantiene una quota più o meno grande di attività produttiva che non viene riconosciuta come lavoro e che per questa ragione non viene retribuita.

2) Per lavoro come norma e/o consuetudine si intende qualsiasi occupazione retribuita. È quella quota di attività che viene remunerata e di conseguenza diventa materia giuridica e contrattuale.

È la remunerazione che rende questa quota d’attività ascrivibile al lavoro e non viceversa.

Se un casalingo svolge la sua attività domestica senza alcuna remunerazione non è un lavoratore; se invece, pur svolgendo la medesima attività, viene pagato dalla moglie diventa lavoratore.

Occorre considerare che nelle società contemporanea, la quota di attività non retribuita, dunque non considerata di norma lavoro, non solo è molto estesa – ci sono cioè tanti soggetti che pur svolgendo attività non vengono retribuiti – ma riguarda anche tutta la forza lavoro giuridicamente intesa come tale. Per effetto di molteplici fattori, infatti, è praticamente impossibile trovare un lavoratore che svolga esclusivamente l’attività per la quale viene retribuito. Sempre più spesso svolge anche altre attività che non vengono remunerate e non è detto che non siano le attività più onerose in termini di tempo o più produttive di beni o servizi o più gratificanti per chi li compie. Non si retribuisce il lavoro ma quella piccola quota d’attività che viene considerata tale dal sistema coatto di lavoro socialmente legittimato.

C’è sempre una quota di attività individuale che non viene retribuita. Ciascuno compie attività oltre al lavoro, al di fuori del lavoro e magari anche contro il lavoro.

È praticamente impossibile trovare qualcuno che non svolga almeno una seconda attività al di là del fatto che venga riconosciuta come lavoro e dunque retribuita. Tra le molteplici ragioni che portano ciò, ve n’è una che ai fini del nostro ragionamento è particolarmente interessante: qualunque sia l’attività lavorativa svolta, vi è sempre una quota eccedente di forza produttiva, di conato attivo che ciascuno esprime e che non solo non coincide, ma spesso prescinde o addirittura è totalmente differente dal lavoro remunerato.

Ciò significa che nessuna singola attività, al di là del fatto che venga riconosciuta come lavoro, è in grado di soddisfare pienamente la soggettività; che lavoro retribuito e attività non retribuite non solo non coincidono ma spesso sono parallele o addirittura collidono.

È questo il motivo per il quale ciascuno elabora una propria doppia strategia di sopravvivenza: da una parte decide, sopporta di scambiare attività con reddito, dall’altra sceglie al di là e oltre le possibilità di retribuzione di svolgere attività liberamente decise. Tollera di lavorare per vivere, ma decide di vivere al di là del lavoro.

Inoltre, occorre considerare che nelle società contemporanee la quota eccedente l’attività di lavoro tende, non solo nei desideri, ma anche nella quantità di tempo dedicata a prevalere su quella retribuita.

Il rifiuto del lavoro si esprime anche in queste forme d’attività considerate extralavorative perché derivano dalla discrasia profonda, ineliminabile, tra pensiero del sé e realtà di sé, tra lavoro svolto e lavoro desiderato, tra attività che si desidera compiere e lavoro che si svolge nella realtà della propria esistenza. Il rifiuto del lavoro segnala lo iato tra produzione di sé e produzione del mondo.

Il discrimine tra lavoro e non lavoro non è il discrimine tra far qualcosa e non far nulla, ma tra svolgere un’attività retribuita da terzi e svolgere attività che non vengono retribuite.

Il discrimine tra lavoro e non lavoro è puramente convenzionale, muta storicamente e socialmente, deriva esclusivamente dai rapporti di potere, è un atto di forza che il sistema dei poteri avoca a sé e che rende possibile la prosecuzione del lavoro coatto.

Per lavoro coatto s’intende qualsiasi attività che si svolge unicamente o prevalentemente per essere scambiata con una retribuzione e non deriva da esigenze autonome della soggettività. Per sistema di potere non si intende semplicemente quello statale o multinazionale o genericamente d’impresa, ma anche quello microsociale, interfamiliare, amicale.

3) Le nozioni di lavoro astratto e di lavoro normato sono sovradeterminazioni di rapporti di potere. Ad esse è preferibile una nozione di lavoro che definiamo concreto. La nozione migliore di lavoro concreto la mutuiamo dalla fisica: per lavoro si intende spostamento dal punto d’applicazione di una forza lungo la sua retta d’azione o, più semplicemente, applicazione di un’energia volta al conseguimento di un fine determinato. Ecco le implicazioni che rendono più concreta, e superiore, la nozione fisica di lavoro rispetto alla nozione astratta o a quella normata care all’economia e alla legge: non c’è campo delle attività antropiche che non possa essere considerato lavoro (neanche l’ozio, il sonno, il camminare); lavoro è qualsiasi attività svolta dall’uomo, ma anche dagli animali e dalle macchine purché abbia una direzione o un fine determinato.

La nozione di lavoro concreto permette di pensare alle seguenti tesi.

A) lavoro e non lavoro sono giuridicamente distinguibili, ma oggettivamente indiscernibili; B) tra lavoro e non lavoro passa un discrimine esclusivamente convenzionale, socialmente e storicamente determinabile; C) in ogni società non viene retribuito tutto il lavoro, ma solo una quota di esso, parte di quello che i terzi da sé riconoscono come tale; D) se dovesse essere retribuito tutto il lavoro inteso in senso concreto occorrerebbe retribuire anche le attività d’ozio, degli animali e delle macchine; E) ai fini della retribuzione, non è necessario che il lavoro sia produttivo, anzi storicamente molti dei lavori meglio retribuiti sono distruttivi in sommo grado, né che il lavoro abbia un’utilità generale – ciò che è utile per alcuni è totalmente inutile e magari anche dannoso per molti altri; F) il lavoro coatto è meno produttivo del lavoro libero e non è detto che costi di meno; G) succede a qualsiasi attività di lavoro ciò che è sempre valso per il lavoro intellettuale: tempo di lavoro e tempo di non lavoro non solo non sono scissi, ma esprimono una continuità funzionale; H) si lavora sempre anche quando normativamente non si lavora mai; I) il tempo libero va considerato come tempo d’altro lavoro, di lavoro in gran parte non retribuito; l) vivere è già lavorare. A quest’ultima conclusione si arriva grazie alle mutate dinamiche del rapporto produzione-consumo. Dalla nascita della società fordista produrre e consumare sono due fronti della medesima attività. Anzi, consumare è divenuto mediamente più importante e anche più complicato che produrre.

Il problema dell’incapacità organica sindacale a tutelare i lavoratori deriva da ciò che viene considerato lavoro. È veramente banale trattare la questione in termini di garantiti e non garantiti, di precari e non. Fino a quando i sindacati non avranno assunto una diversa nozione di lavoro saranno in grado magari eroicamente ma pur sempre semplicemente di governare la forza lavoro che il sistema di potere considera tale. Ma quando sarà assunta come nozione di lavoro quella mutuata dalla fisica forse non ci sarà più bisogno di sindacati.

Teorie del lavoro e teorie del reddito sono inestricabili, dunque occorre pensare al reddito in due direzioni complicatissime ma ambedue deducibili facilmente dalle tesi sul lavoro.

La prima: se è arbitraria la differenza tra lavoro e non lavoro, ugualmente arbitrario è remunerare alcune forme di lavoro e non remunerarne altre.

La seconda: la retribuzione deve essere indipendente dal lavoro coatto.

Il deve essere evidentemente non è una petizione generale di cittadinismo, una gentile richiesta alla politica, ma una rivoluzione di portata epocale le cui forme possono essere al momento semplicemente, ma coriacemente immaginate e si spera, magari timidamente, ma tenacemente perseguite.

Se infatti, la totale coincidenza tra attività e vita è impossibile, la tendenza a quell’impossibilità, così difficilmente realizzabile, rimane l’obiettivo del rifiuto del lavoro. Le teorie e le strategie riguardanti il reddito – guardate dal punto di vista del rifiuto del lavoro – non hanno come obiettivo garantire forme d’assistenza statuali, ma di permettere l’autonoma espressione dell’attività soggettiva, la possibilità di determinare cosa, come, in quali quantità produrre e a quale fine.

La domanda fondamentale, tutt’altro che scontata, che bisogna porsi prima di propendere per questa prospettiva è dunque. Può esistere una società senza lavoro coatto? A rendere meno retorica la domanda, e la scommessa implicita, è l’amara constatazione che all’indomani di ogni rivoluzione il moltiplicarsi della quota di lavoro coatto è stata quasi una regola.

 

A1) Se per lavoro s’intende lo scambio fra prestazione (qualunque essa sia) e salario, il lavoro è un bene comune?

Consiglierei vivamente di evitare di utilizzare frasi fatte quali quelle sul bene comune.

B) Cos’è e quando nasce l’idea del redditto di cittadinanza?

Il reddito di cittadinanza nasce a Roma con le Leges Frumentariaeal 123 a.c. per opera di Gaio Sempronio Gracco, tribuno della plebe anch’egli. In epoca romana dura, con alterna fortuna, pareccfrumentaziones con la distribuzione diretta di pane. Quando rinasce in epoca contemporanea, accanto all’obiettivo concreto di assicurarsi una di assicurare alle classi povere quote di consumo e prende atto del profondo ribaltamento nel rapporto produzione-consumo per e

C) Redditto di Cittadinanza e Welfare: qual è il loro rapporto?Se le spese per l’affitto, il mutuo, la sanità, l’istruzione sono tra le voci più pesanti nel bilancio familiare medio, perché non spingere su una riforma del welfare che non preveda solo tagli e privatizzazione, su un piano case come si deve, su sistemi sanitario e d’istruzione accessibili e per tutti, anziché sul reddito?

Reddito di cittadinanza e welfare, reddito monetario e reddito non monetario, salario diretto e salario indiretto sono complementari. Il reddito di cittadinanza, dove praticato, è emanazione principe del welfare.

D) Introdurre un welfare state basato sul redditto di cittadinanza può essere un modo per uscire dal paradigma finanziario neo liberale?

No so cosa significhi paradigma finanziario neoliberale; se è sinonimo di capitalismo certamente no. Ed è certo che, così come in epoca romana non ha affrancato dalla schiavitù, il reddito di cittadinanza oggi non affrancherebbe dal lavoro.

E)Il reddito di cittadinanza ha a che fare con l’anticapitalismo?Il reddito potrebbe dare respiro/incentivare/stimolare la cooperazione sociale e quindi la creazione di un’economia non fondata esclusivamente su costrizione e profitti?

Non so cosa si intende precisamente per capitalismo. Occorrerebbe saperlo con precisione per fare eventualmente qualcosa di anticapitalistico.

Ricordo che le forme di reddito di cittadinanza finora praticate dagli stati derivano da un insieme di pratiche di controllo sociale e di distribuzione del bottino di guerra.

F) Come cambierebbero i processi produttivi nel caso in cui un reddito di base incondizionato fosse elargito? saremmo ancora di fronte a devastazioni ambientali come, ad esempio, quella tarantina ad opera dell’ILVA? il reddito è quindi strettamente connesso alla possibilità di mettere in piedi un’economia sostenibile?

Non c’è nessun legame provato o provabile fra reddito di cittadinanza ed ecoeconomia.

Reddito di cittadinanza, reddito garantito, reddito d’esistenza, reddito di base che sono spesso trattati come fossero medesimi concetti mentre invece non lo sono affatto.

G) Esistono esperienze reali di Redditto di Cittadinanza in Italia e/o Europa? Qualcosa che si avvicina a quello che tu intendi con quel concetto?

Le forme che esistono, ma anche quelle a cui si richiamano la quasi totalità dei favorevoli al reddito di cittadinanza, pur nelle varietà della proposta, non mi trovano d’accordo. Intanto perché continuano a essere reclamate come una specie di rito liturgico nella santa messa del sinistrume. Ma il motivo vero del disaccordo è nel contempo semplice e radicale ed è comprensibile a partire da due banalissime questioni che mi piacerebbe porre al dibattito: 1) chi deve elargire il reddito? 2) chi lo deve ricevere?

Alla prima domanda la risposta generale, ovvia è: lo Stato. Io credo che appellarsi allo Stato o ad altri apparati pubblici non sia cosa né utile né santa soprattutto per chi non ha interesse a catturare o a farsi catturare dall’apparato statale. Non dico che sia un bene o un male, ma semplicemente una questione di coerenza. Se io pensassi che lo Stato o la Regione o il Comune debbano elargire un reddito a parte o a tutta la popolazione e condivisessi questo obiettivo farei di tutto per partecipare all’agone politico nel quale si possono decidere cose simili.

Ma siccome penso che lo Stato, qualsiasi Stato, abbia il legittimo compito di governare la vita della sua popolazione, per fare ciò può sì elargire, come già fa in alcuni paesi, un reddito ma la condizione perché ciò avvenga è ancorarlo sempre e comunque a funzione complementare, incentiva e non sostitutiva del lavoro coatto o a mere funzioni assistenzialistiche che, certo, possono essere un freno alla fame, ma sono nondimeno la forma più pura della sostanzializzazione della miseria (umana prima che economica).

2) sul chi deve ricevere il reddito, e anche sul quantum, il ventaglio della proposta si estende dalla destra sociale alla sinistra estrema. Ciascuno canta messa a modo proprio. Secondo alcuni chi ha perso il lavoro, secondo altri anche chi lo sta cercando, c’è chi aggiunge l’intermittente, chi pensa a tutti quelli il cui reddito non raggiunge una certa quota, chi dice tutti al di là del lavoro svolto, i più radicali lo vorrebbero per tutti al di là della condizione sociale e anche dell’età. Nella realtà,in base alla quantità della trippa, può essere ammesso alla mensa solo un certo numero di gatti purché non rovinino l’appetito ai cani che la elargiscono.

Ciò che non funziona nelle proposte in campo è la visione unicamente contrattuale della dinamica conflittuale e di trasformazione. Che è una visione propria della politica e del sindacato tradizionali. Per essi, in un buco nero chiamato Stato c’è una torta che deve essere distribuita più o meno adeguatamente. Quel più e quel meno dipendono dalle compatibilità, dalle clientele, dal conflitto, dalla forza del sindacato, dall’andamento delle elezioni, dai giochi di scambio della politica; tutti fattori che intervengono nell’eterna dialettica tra servo e padrone nella quale c’è sempre uno che chiede e l’altro che dà, chi elargisce e chi riceve, chi comanda e chi si assoggetta, chi produce e chi consuma. In questa dialettica – che ripeto non condanno moralisticamente, ma mi limito a constatare come rappresentazione da operetta di una realtà sociale che più non gli corrisponde – non c’è posto per il rifiuto del lavoro coatto, per la ricerca dell’autonomia della soggettività, per la riduzione dello iato tra produzione di sé e produzione del mondo.

H) Come cambierebbe nel concreto la tua vita con il Reddito di cittadinanza.

I)La rivendicazione di un reddito svincolato dalla prestazione lavorativa non è un tema nuovo nelle discussioni dei movimenti. Cosa rende attuale tale lotta al giorno d’oggi? Il reddito può essere terreno di ricomposizione all’interno dei movimenti?

Per le ragioni esposte non credo si tratti più solo di rivendicare qualcosa nei confronti di qualcuno. Ripeto che non sono contrario al fatto che lo si faccia, ma sarebbe più sensato che lo si facesse in un ambito istituzionale dove il soggetto rivendicante può convincere o costringere alla ragione il soggetto di potere elargente.

Gli schemi contrattualisti o sindacalisti classici (lotta-sviluppo, sviluppo lotta) permettono di affrontare la dinamica storica in termini di resistenza o di compartecipazione tra forze che accettano un campo di gioco e in quel campo di gioco aspirano a vincere contro l’antagonista, ma è una fatica di Sisifo perché mancasse l’antagonista anche la forza residua perirebbe inevitabilmente. Per questo motivo, nella dialettica servo-padrone, le forze in campo sono condannate a giocare una volta perdendo e un’altra volta pareggiando. Senza vincere mai definitivamente.

Chi non accetta quel campo di gioco, e le regole che lo sottintendono, è più sensato che batta strade diverse. Se qualcosa del mondo non piace, è inutile chiedere a chi quel mondo l’ha costruito di cambiarlo. O si prende il suo posto, con la speranza di fare meglio ma con la possibilità di fare più danni, o si cambia il mondo.

I movimenti, a mio parere, dovrebbero limitare contrattualismo e rivendicazionismo a favore di un atteggiamento di rifiuto costruttivista creativo.

Non dovrebbero affatto limitarsi a rivendicare, ma a fare del rifiuto un’arte della creazione, della costruzione e della prassi di forme di vita più a loro consone. Sulla questione del reddito, lasciate a beneficio di chi vuol cantar messa la questione del reddito di cittadinanza, il problema vero è costruire le forme della cooperazione sociale in grado di rifiutare il lavoro coatto e di assicurare il reddito necessario a ciascuno, reddito che non deve essere elargito da qualcuno ma creato (preso) dalla soggettività. Quel reddito necessario è ipotizzabile in forme societarie, relazioni sociali e rapporti di produzione tutte da inventare. Per decidere chi e come deve percepire un reddito occorre sapere come e cosa si produce.

Non siamo al momento zero, ma quasi. Se escludiamo la nobilissima tradizione delle Società di mutuo soccorso e le pratiche di reddito autogarantito dei movimenti degli anni Settanta, c’è tutto da inventare, c’è l’intera prassi economica da sovvertire.

Anziché a redditi elargiti dallo Stato occorre pensare a forme di autoreddito che possono nascere inizialmente in ambito di relazioni sociali ed economiche autonome, di circuiti economici autonomi (aperti), di spazi produttivi nelle situazioni di movimento.

Teorie del lavoro e teorie del reddito sono strettamente interdipendenti. Ciò vuol dire che la ricerca dell’autonomia soggettiva nella sfera lavorativa non può prescindere dall’autonomia reddituale.

La porta è stretta. Rifiutato il lavoro coatto, rifiutata la sovradeterminazione del rapporto lavoro-reddito, è necessario pensare a forme reddituali che superino l’attuale situazione di sovranità monetaria. Così come ciascuno deve essere sovrano del proprio tempo, identicamente deve poter essere sovrano del proprio reddito.

La trasformazione, ormai più che tendenziale, del denaro che si smonetizza, che assume i caratteri della pura virtualità, dell’informazione, rende possibile sfidare la sovranità monetaria degli stati, delle banche e dell’impresa multinazionale.

Creare spazi e forme della produzione autonoma, battere singolarmente denaro, fondare Banche di gratuito credito, costruire economie del Prezzo Sorgente, istituire spazi di autoreddito, rifondare relazioni sociali di mutuo soccorso: ecco alcuni passaggi possibili per andare oltre le sbiadite teorie sul reddito di cittadinanza.

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