Cosa succede in Tunisia?

Il 25 luglio dell’anno scorso il presidente tunisino Kais Saied – docente di diritto costituzionale ed estraneo alla politica prima di vincere le elezioni nel 2019 – aveva invocato misure eccezionali citando l’articolo 80 della costituzione del 2014.
Con questa mossa, era riuscito a sospendere il parlamento e a destituire il governo, mettendo all’angolo il partito di opposizione maggioritario, Ennahda, dei Fratelli Musulmani.
In seguito si è concesso il diritto esclusivo di governare per decreto, ha sospeso la maggior parte della Costituzione tunisina del 2014 e ha sciolto il parlamento prima di darsi il mandato di modificare la costituzione.

Il 25 luglio 2022 si è tenuto in Tunisia un referendum sulla nuova Costituzione. Approvata con un’affluenza alle urne del 30,5%, entrerà in vigore il 27 agosto 2022 e sostituirà di fatto la Costituzione adottata dall’Assemblea nazionale costituente della Tunisia nel gennaio 2014.

La nuova Costituzione trasforma la Tunisia in una Repubblica iper-presidenziale, aumentando i poteri istituzionali del capo dello stato che assume maggiori controlli anche sul governo e sulla magistratura. A queste prerogative, va aggiunto il fatto che Saied potrà ratificare leggi, sarà il Capo delle Forze Armate e potrà definire la politica generale dello stato con proposte al parlamento che andranno esaminate in via ‘prioritaria’. È previsto inoltre che il presidente sconti due mandati di cinque anni ciascuno – ma potrebbe prolungare il suo incarico – e sarebbe in grado di sciogliere il parlamento. A sua volta, il capo dello stato invece non sarebbe soggetto ad alcun controllo, poiché la nuova Costituzione – a differenza di quella del 2014, approvata dopo la ‘Rivoluzione dei Gelsomini’ – non include disposizioni per l’impeachment del presidente, rendendolo virtualmente inamovibile dall’incarico. Inoltre, per la prima volta in un paese arabo, l’Islam non è contemplato come religione di stato, sebbene la Tunisia sia definita “parte della comunità islamica” e “lo stato deve lavorare per raggiungere gli obiettivi dell’Islam”, quindi che “nessuna restrizione può essere posta ai diritti e alle libertà garantiti se non per legge e necessità imposte da un ordine democratico”.

L’affluenza alle urne, considerata molto bassa in cui la partecipazione di solito difficilmente supera la soglia del 40%, è stata di 2,756 milioni di elettori.

Dal 2011 al 2019 l’elettorato tunisino ha visto susseguirsi sei presidenti, quasi tutti al di sopra dei 70 anni; gli indicatori economici si sono progressivamente deteriorati, la fiducia nella classe politica considerata corrompibile e poco interessata ai bisogni della popolazione, ha portato una parte della popolazione a puntare sul cosiddetto “uomo forte”, rappresentato in un uomo “giovane” (Saied è nato nel 1958), acculturato, di un partito indipendente e che ha puntato il dito fin da subito contro l’islam politico del partito Ennahda. Non era un segreto l’intenzione di Kais Saied di incentrare tutto il potere nelle sue mani, affermando apertamente la necessità di ripulire la classe dirigente dalla corruzione dilagante.

Ma quindi Kais Saied è un dittatore dai pieni poteri oppure è il paladino di una Tunisia democratica a liberata dall’islam politico?
Non spetta a noi il giudizio.
Le proteste e gli scontri di piazza che hanno infiammato i giorno dopo l’approvazione del Referendum e causato decine di arresti, sono indice che il popolo tunisino ancora non è anestetizzato dalla crisi economica e dagli attacchi della politica. Un’opposizione extraparlamentare c’è, a differenza di tanti altri paesi – soprattutto in Occidente – in cui la pace e la pacificazione mantengono invariate le nostre società ingiuste.

Quando i giornalisti occidentali scrivono che la vittoria di questo Referendum tunisino cancella ciò che è stato ottenuto dalle cosiddette Primavere Arabe – le rivoluzioni che hanno scosso diversi paesi arabi dal 2011 – si scordano che quell’anno lì ha dato maggiormente spazio alle frange dell’islam radicale come in Egitto, all’instabilità con continue ingerenze esterne come in Tunisia o in Siria, e al caos con conseguente guerra civile come in Libia. Quel 2011 lì ha distrutto i sogni di migliaia di giovani che chiedevano democrazia e vite dignitose nei propri paesi, perchè con l’intervento militare di Francia, USA e altri paesi NATO, tutto ciò per cui si manifestava con i legittimi strumenti dello sciopero e delle proteste – anche radicali – è stato spazzato via da aerei da combattimento e esecuzioni sommarie.

Non è stato lasciato il dovuto spazio ai giovani arabi per protestare liberamente e di poter scegliere – senza influenze occidentali – quale direzione dare alla protesta per poter arrivare alla tanto richiesta democrazia, e la Libia di questo ne è un triste esempio.

Ciò che di chiaro rimane in paesi come la Tunisia – dal sacrificio del giovane commerciante che si è dato fuoco per protesta a Sidi Bouzid nel 2011, alle battaglie in piazza contro la violenza poliziesca, alla cacciata di Ben Ali fino ad arrivare alle prime elezioni e ai primi presidenti democraticamente eletti – è che il popolo tunisino non è soggetto a paura ed è capacissimo di affrontare le proprie questioni di politica interna, facendo lo slalom tra interessi terzi.

L’invito agli attori esterni è quindi quello di star a vedere e di rispettare la voce di chi si oppone, senza la pretesa di moderarle. Perché se c’è una cosa di cui possiamo essere sicuri è che le persone che hanno vissuto questi 12 anni passati dalle rivoluzioni, sono ben consapevoli delle proprie motivazioni e hanno gli stessi nostri strumenti per farsi sentire tramite la protesta. Ancora una volta, è necessario mettersi in una posizione di ascolto dei divers attivist tunisini.
Degli attori, dei commentatori o degli opinionisti salvatori paternalisti occidentali, il Maghreb come il Medio Oriente ne ha davvero abbastanza.

Nassi La Rage

 

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