Il Kurdistan chiama – Kobane a pochi metri
Urfa, città dei profeti, del roseto e delle carpe sacre di Abramo, dell’alta rocca e delle melanzane a essiccare. Urfa che cambia nome e diventa Sanliurfa, Urfa la gloriosa. Urfa luminosa e a pochi chilometri dal confine con la Siria è il nostro punto di partenza, la nostra casa base, in cui perdersi tra le strade dei bazar e i canti dei muezzin.
Il nostro viaggio in Kurdistan comincia da qui e attraversa campi profughi, associazioni, partiti e i festeggiamenti del Newroz. Qualcosa di questo viaggio lo trovate nel video che pubblichiamo, realizzato da Nicola Giordanella per la delegazione di Rojava Calling Liguria che abbiamo avuto la fortuna di incontrare e con cui abbiamo condiviso il viaggio.
Il primo impatto col Kurdistan è Amara, centro culturale di Suruc, in cui veniamo accolti da Fayza, co-presidente dell’assemblea legislativa di Kobane, che ci racconta la resistenza e ci chiede quello che da lì in poi ci chiederanno tutti: fare pressione per l’apertura di un corridoio umanitario con la città, per permetterne la ricostruzione e garantire la possibilità del ritorno dei profughi. Fayza parla pacata, senza enfasi, mentre dice che i curdi stanno combattendo per tutta l’umanità e che l’esperienza del Rojava può servire anche ad altri, per prenderne esempio e forza. Racconta la storia di maestre, postini, idraulici e casalinghe che prendono le armi per difendersi dall’invasore (e nella testa di tutti riecheggiano le note di bella ciao) e che sperano di tornare non alla loro vita, ma a quella migliore che stanno costruendo, alle assemblee e alla partecipazione che continuano a sperimentare sotto le bombe e nei campi profughi.
Solo a Suruc si sono 15.000 profughi, e prima della liberazione di Kobane erano il doppio: la maggior parte è ospitata nei campi gestiti dalla municipalità e solo 5000 sono nel campo gestito dal governo. Due modi di gestire l’emergenza, quello turco e quello curdo, che rispecchiano due modi di vedere il mondo: nel campo turco non si può parlare curdo e non si può uscire, in quello curdo ci sono assemblee di gestione, scuole e la tenda delle donne, dove parlare di quello che non si vuole dire davanti a tutti. È separatismo, ben conosciuto in Italia, che qui assume una veste nuova: contro ogni gerarchia nelle lotte le donne curde portano avanti la guerra e la loro liberazione, la gestione del campo e le discussioni sulla violenza domestica, l’azione nell’emergenza e il tempo per parlare di sé, per raccontarsi e trovare lì la propria forza.
Nel campo i bambini costruiscono fortini e giocano alla guerra: hanno creato due fronti, e vincono sempre quelli che si lanciano in battaglia sventolando una bandiera che ritrae Ocalan. Le tracce della guerra e della crudeltà portano con sé anche quelle della resistenza.
Questa modalità di gestione esiste anche a Viransheir, dove sono ospitati i profughi yazidi scappati da Sinjar. È l’unico campo in cui i bambini non ci corrono incontro, pronti a farsi fotografare e a fotografarci, è l’unico costruito lontano dalla città e ci spiegano che le donne preferiscono così, per non rischiare di incontrare uomini arabi. Gli yazidi sono stati assediati dall’ISIS per mesi, massacrati perché considerati pagani: venerano, infatti, il pavone, ovvero il nostro serpente del paradiso perduto, per aver dato la conoscenza agli esseri umani. Sono stati salvati, ci raccontano in un quadrato di sedie in un campo da pallavolo improvvisato, da 11 guerriglieri YPG/YPJ, che hanno aperto un corridoio verso la Turchia: solo 7 di loro sono sopravvissuti e gli abitanti del campo parlano di eroi e di leggenda, parole che acquistano una dimensione concreta e tangibile, fuori da ogni retorica. È in questo campo che, con più forza, emerge la richiesta di cancellare il PKK dalle liste delle organizzazioni terroristiche in cui è ancora inserito da USA e UE, con macabra ironia sono le stesse liste in cui si trova l’ISIS.
A Kobane, la città simbolo, non ci siamo andati, ma abbiamo trovato le tracce della sua presenza nei gesti concreti di tutti quelli che abbiamo incontrato e nei loro racconti. Ma in fondo camminare per le sue strade ci interessa poco, anche se è importante, perché noi Kobane l’abbiamo vista biancheggiare oltre il filo spinato del confine e ne abbiamo visto il riflesso sui volti del popolo curdo e nelle loro azioni. Del Newroz a Diyarnakir abbiamo già parlato, ma la stessa capacità di tenere insieme danza e rivoluzione, politica e gioia si è vista in quello di Urfa, in cui sono scese in piazza almeno 40000 persone (Urfa ha 400000 abitanti): una festa che si tinge di vittoria, anche se si tratta di una vittoria incompleta. I gesti concreti sono quelli del partito democratico, HDP, l’ultimo dei numerosi partiti curdi che periodicamente vengono dichiarati fuorilegge dalla Turchia, che governa 130 municipalità provando a mettere in pratica i principi del Rojava. Ne abbiamo un esempio a Viransehir, piccola cittadina in cui la sede del Comune è diventata uno spazio polivalente: offre una caffetteria, uno spazio per studiare, un cinema, una sala conferenza e corsi gratuiti di musica, danza, teatro, lingue, etc. Un esempio piccolo, quasi insignificante in mezzo ai racconti di eroismo, ma che ci mostra una strada, un diverso modo di intendere la politica, la partecipazione e la cittadinanza. E di questo non possiamo che essere grati al popolo curdo: non solo mettono in atto una stupefacente resistenza, ma ci offrono nuovi strumenti per immaginare altri mondi possibili e nuovi occhi per guardarli.
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