“Non possiamo mangiare carbone, non possiamo bere petrolio”. La lotta del movimento ambientalista africano contro la crisi climatica
Secondo la World Bank, entro il 2025 almeno 86 milioni di africani saranno costretti a migrare all’interno dei loro paesi perché direttamente colpiti dagli effetti del cambiamento climatico.
Edwin è uno di quei tanti, tantissimi giovani africani che negli ultimi anni, hanno deciso di prendere la parola, di alzarsi da soli, di smettere di aspettare che siano i leader a fare qualcosa, a prendere le decisioni giuste.
Smettere di delegare. Come tanti, Edwin ci ha confidato che osservare quanto gli accadeva intorno lo ha portato a domandarsi: cosa fare?
La vera spinta ad agire è stato l’esempio di due donne, due giovanissime donne: Greta Thunberg e Vanessa Nakate, anche lei ugandese.
Diventata “famosa” quando, nel 2019, decise di manifestare, tutta sola, davanti al parlamento a Kampala.
Nel 2020 partecipò al Forum mondiale di Davos e fu in quell’occasione che si comprese non solo il carattere e la misura della giovane attivista ma il modo in cui l’Occidente continua a considerare il continente africano. Dalla foto di gruppo – scattata dalla Associated Press – delle principali attiviste che avevano preso parte ai lavori di Davos, lei – unica nera – venne tagliata. La sua risposta, netta e dirompente non si fece aspettare: “Non avete solo cancellato una foto. Avete cancellato un intero continente”.
Intanto, diventava finalmente chiara l’estrema lucidità del movimento militante ambientalista africano. Un movimento che stava crescendo intorno a figure chiave, ma che coinvolge i singoli con una costanza e quotidianità che ormai rende impossibile ignorarli. Dalla loro hanno non solo la conoscenza teorica – molti provengono da studi specifici correlati alle questioni ambientali – ma anche quella dell’esperienza diretta: “Il cambiamento climatico è qualcosa di più che dati e statistiche, riguarda le persone che ne pagano le conseguenze. Proprio in questo momento”, ha detto spesso Vanessa Nakate che ripete anche spesso quello che è diventato un mantra che accompagna le sue proteste: We cannot eat coal and we cannot drink oil (non possiamo mangiare carbone, non possiamo bere petrolio). Perché mentre l’Europa e tutto l’Occidente sono concentrati – e ultimamente con la guerra in Ucraina, ancora di più – su dove trovare gas e petrolio, altri cercano cibo e acqua. E non li trovano.
È l’evidenza cruda e drammatica di quanto la questione climatica incida in modo diretto sulla vita delle persone, che rende il movimento Fridays for Future in Africa così acceso e competente.
I giovani africani non hanno bisogno di immaginare a quali catastrofi si può andare incontro se non si attuerà una totale inversione di rotta sul modo di affrontare la questione climatica. Lo hanno già sotto gli occhi.
Nonostante l’Africa sia il continente a più basso tasso di emissioni di gas serra – si parla di circa il 7% – è quello che sta subendo il maggior impatto del mutamento climatico.
E le cose andranno solo a peggiorare se si continuerà con politiche (e investimenti) legati allo sfruttamento dei combustibili fossili e alle trivellazioni per la ricerca ed estrazione del petrolio.
Peccato che le logiche dei leader (occidentali così come africani) vadano invece nella direzione di massicci, nuovi investimenti in questo settore.
Lo rivelano documenti che il Guardian ha avuto l’opportunità di visionare e che saranno anche al centro degli incontri della COP27 in programma a novembre in Egitto.
Un evento a cui i giovani attivisti africani ai stanno preparando e da cui sperano in realtà ben altro: investimenti sulle rinnovabili, un atteggiamento più realistico e meno predatorio sulle risorse naturali, la sicurezza che investimenti presenti e futuri vadano ad impattare sulle comunità locali e non a favorire e arricchire solo i paesi occidentali.
Tra le battaglie che hanno visto l’impegno di Kalonji c’è l’EACOP – attualmente in costruzione – noto come l’oleodotto Uganda-Tanzania. Il suo scopo è trasportare petrolio greggio dai giacimenti petroliferi dell’Uganda al porto di Tanga, in Tanzania, sull’Oceano Indiano. Una volta completato, sarà l’oleodotto riscaldato più lungo del mondo. Un accordo di 3 miliardi di dollari tra la francese Total e la cinese National Offshore Oil Corporation. Secondo gli ambientalisti africani – che intendono proseguire la battaglia legale – si tratterebbe di uno scempio che causerà disastri all’ambiente e alle popolazioni.
Altre battaglie in corso sono quelle contro la deforestazione del bacino del Congo, che procede inesorabile e potrebbe portare alla sparizione della foresta pluviale entro il 2100. Recentemente il governo ha messo all’asta – ai migliori offerenti stranieri – 27 blocchi per lo sfruttamento del petrolio e 3 per l’estrazione del gas. Alcune di questi lambiscono il lussureggiante parco sede di una ricca fauna selvatica (anche protetta) e un incredibile ecosistema. “27 milioni di persone qui vivono nell’insicurezza alimentare a causa dell’impatto del cambiamento climatico sull’agricoltura, beviamo acqua contaminata, mangiamo cibo contaminato” racconta l’attivista congolese che ricorda il caso di Moanda città dove sono in corso attività della multinazionale petrolifera e del gas anglo-francese Perenco.
Anche per la Nigeria, per quella parte della popolazione che non conta granché ai tavoli decisionali, il petrolio è stata una sorta di maledizione. Che ha fatto tante vittime e – senza timore di abusare del termine – qualche eroe. Ken Saro-Wiwa, scrittore, poeta, attivista e altri otto compagni di lotta, si schierarono da soli e per anni contro le attività di sfruttamento della Shell, che da decenni estrae petrolio nel territorio del Delta del Niger. Questo gruppo di giovani consapevoli si alzò a difesa dell’ambiente e del popolo Ogoni che ne stava subendo la devastazione e finirono impiccati, il 10 novembre 1995. Condannati da un tribunale militare.
“In Nigeria uno dei maggiori problemi ambientali legati all’azione dell’uomo è causato dalla fuoriuscita del petrolio e dalle frequenti esplosione nel Delta del Niger” ci racconta Lovelyn Andrawus Thalkuma, giovane attivista nigeriana.
La questione climatica può generare grande stress soprattutto in quelle popolazioni e famiglie il cui degrado ambientale incide sulla sopravvivenza stessa. E così, sempre in Nigeria, è nato il progetto Eco-anxiety in Africa, con lo scopo di capire e condividere le esperienze emotive degli africani legate alle crisi ambientali. A lanciare l’iniziativa l’attivista Jennifer Uchendu. Del resto l’uso dei social aiuta questi ragazzi a stare in contatto con il resto del mondo, a condividere esperienze e campagne. Il tanzaniano Basat Ghaamid Abdul, vice presidente di Earthday per l’Africa sub-sahariana, ha usato per esempio YouTube per parlare del tema della desertificazione. Video con cui ha vinto il premio dell’UNCCD – Convenzione delle Nazioni Unite per combattere la desertificazione.
Giustizia climatica è il concetto che viene costantemente ripetuto dai giovani attivisti per l’ambiente in Africa. Perché di questo si tratta: creare le condizioni per cui a pagare non siano sempre e ancora le popolazioni, i territori e le categorie più deboli. Dove la lotta è anche lotta intersezionale e dove la questione di genere erompe in modo chiaro. In Africa più che altrove sono le donne a portare il peso delle conseguenze derivate dalla crisi climatica. Lo sapeva Wangari Maathai – prima donna africana a vincere il premio Nobel per la Pace nel 2004 – che coinvolse sempre le donne nell’attività politica, sociale e ambientale. Fu con loro che creò il Green Belt Movement che ad oggi ha piantato 51 milioni di alberi in Kenya. La motivazione del Nobel citava il suo “contributo allo sviluppo sostenibile, alla democrazia e alla pace” perché è proprio così: non si può sperare nella convivenza pacifica laddove non ci sia ripartizione di risorse e laddove lo sfruttamento del territorio vada a discapito delle comunità locali e dei territori.
Non è tutto lì, ovviamente. Non c’è tutto, non ci sono tutti in quell’elenco. Non c’è quella base fatta di quei ragazzi che si stanno dedicando lontano dai riflettori, che in questi anni hanno affollato le strade con i loro cartelli e striscioni e che stanno programmando gli eventi legati al 23 settembre, sciopero dell’ambiente dei Fridays for future. Alcune organizzazioni hanno già comunicato le loro iniziative, altri si stanno consultando.
Anche questo è un aspetto interessante dei giovani ambientalisti africani: condividere con i loro compagni del resto del mondo e confrontarsi a livello interno. Recentemente l’Assemblea generale dell’ONU ha dichiarato che vivere in un ambiente sano e pulito è un diritto dell’uomo al pari degli altri.
Dovere degli Stati sarebbe quello di garantire – e nei fatti – tale diritto. Dopotutto, come ci ha detto il giovane attivista ugandese, Edwin Namakanga: “non possiamo realizzare i nostri sogni su un pianeta morto”.
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