Tre terapie intensive, 28 posti letto e la guerra: il Rojava rischia la catastrofe

L’Amministrazione autonoma si prepara all’arrivo del Covid-19 con i pochi fondi a disposizione, mentre la Turchia continua a occupare parte della regione e taglia l’acqua ad Hasake. La Mezzaluna curda prepara tende per i malati e campagne di informazione.

Immaginate che la stessa epidemia di coronavirus che stiamo vivendo scoppi in un paese con tre ospedali attrezzati con un reparto di terapia intensiva (di cui solo uno interamente funzionante), 28 posti letto, dieci ventilatori polmonari per adulti e uno per bambini.

A questo aggiungete nove anni di conflitto armato, decine di migliaia di sfollati interni, campi profughi con condizioni igienico-sanitarie precarie. E un’intera regione sotto embargo.

Stiamo parlando del nord est della Siria, il Rojava, quella striscia di terra dove gli attacchi della Turchia di Erdogan non si sono mai fermati. E che oggi potrebbe diventare «uno dei focolai più gravi al mondo», come dichiarato dall’International Rescue Committee.

«La questione non è se arriverà o meno, ma è quando arriverà», ci racconta una fonte sul campo. Come misura precauzionale, il 23 marzo l’Amministrazione autonoma ha lanciato il coprifuoco, permettendo gli spostamenti solo a lavoratori in campo sanitario, alimentare, di ordine pubblico, giornalisti e a chi trasporta carburante.

Qui, dove non c’è alcun apparato statale e l’emergenza è continua, la gestione della sanità è organizzata dalla Mezzaluna rossa curda. Insieme all’Amministrazione e ad altre ong, la Mezzaluna si è adoperata prima di tutto per creare campagne di consapevolezza, lasciando dei vademecum nei punti di ritrovo della città e nei checkpoint e andando a informare la popolazione sulle misure precauzionali.

Allo stesso tempo si sta preparando per quando il virus arriverà: c’è un numero verde apposito, verranno preparate delle ambulanze adibite al trasporto di soli pazienti affetti da Covid-19 e sta cercando di strutturare al meglio le terapie intensive.

C’è poi un lavoro specifico che riguarda i campi profughi, luoghi ad alto rischio, che consiste nella preparazione di kit sanitari (liquido alcolico e mascherine) da distribuire e in misure preventive atte a isolare potenziali fonti di contagio (come tende per persone che potrebbero essere state contagiate).

«Ovviamente il tutto è molto limitato perché i fondi disponibili sono quelli che arrivano dalle ong o dai crowdfunding della Mezzaluna e la gestione di un’epidemia che potrebbe diventare pandemia ha dei costi molto più grandi», ci spiega ancora la nostra fonte.

«Il vero problema qui è che al momento non si è in grado di sapere se qualcuno è infetto o meno: l’unico ospedale in grado di analizzare i tamponi si trova a Damasco e questo vuol dire sia che ci vogliono dai quattro ai sette giorni per ottenere un risultato sia che non si può monitorare la procedura e avere la certezza che venga effettuata secondo i giusti criteri».

Per ogni tampone eseguito, la World Health Organization preleva il campione, lo porta nel centro di analisi a Damasco e poi informa sui risultati, facendo da ponte fra il governo di Assad e l’Amministrazione autonoma. L’unico ospedale che avrebbe potuto analizzare questi tamponi direttamente nel Rojava è quello di Serikanye, bombardato dalla Turchia durante l’ultima invasione dell’ottobre 2019.

«Noi già ci troviamo ad affrontare una situazione critica: ci sono profughi che arrivano senza nulla dalla zona di Idlib; gli attacchi della Turchia non si sono mai fermati; alcune zone, come il campo profughi di Sebha, sono sotto il controllo turco e quindi isolate. In più la Turchia ha bloccato l’approvvigionamento di acqua nel governatorato di Hasake, rendendo ancora più precarie le condizioni di vita e igienico-sanitarie di chi vive lì. C’è un’emergenza continua a cui si aggiunge la questione del coronavirus che è assolutamente problematica e che, in prospettiva, potrebbe essere una catastrofe».

Per questo la Commissione per la salute dell’Amministrazione autonoma ha lanciato un appello alle Nazioni unite, all’Organizzazione mondiale della Sanità, all’Unione europea e a tutte le strutture e organizzazioni internazionali «perché sostengano l’Amministrazione nella garanzia dell’assistenza medica e perché contribuiscano con apparecchiature mediche, equipaggiamento e medicinali a arginare e tenere sotto controllo questa pandemia globale e in questo modo tenere il più possibile basse le perdite di vite umane».

Senza per questo dimenticare che anche il resto del mondo, e in particolare l’Italia, sta vivendo una vera emergenza: «Qui tutti mandano saluti all’Italia, esprimono vicinanza: la solidarietà internazionale è qualcosa di concreto».

di Elisa Elia

da il Manifesto del 27 marzo 2020

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